domenica 29 dicembre 2013
Maschio e femmina li creò

di Padre Raniero Cantalamessa
La Domenica dopo Natale si celebra la festa della Sacra Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe. Nella seconda lettura san Paolo dice: “Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come si conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non inaspritevi con esse. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. Voi, genitori, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino”. In questo testo sono presentati i due rapporti fondamentali che, insieme, costituiscono la famiglia: il rapporto moglie - marito, e il rapporto genitori - figli.
Dei due rapporti il più importante è il primo, il rapporto di coppia, perché da esso dipende in gran parte anche il secondo, quello con i figli. Leggendo con occhi moderni quelle parole di Paolo una difficoltà balza subito agli occhi. Paolo raccomanda al marito di “amare” la propria moglie (e questo ci sta bene), ma poi raccomanda alla moglie di essere “sottomessa” al marito e questo, in una società fortemente (e giustamente) consapevole della parità dei sessi, sembra inaccettabile.
Su questo punto san Paolo è, in parte almeno, condizionato dalla mentalità del suo tempo. Tuttavia la soluzione non sta nell’eliminare dai rapporti tra marito e moglie la parola “sottomissione”, ma semmai nel renderla reciproca, come reciproco deve essere anche l’amore. In altre parole, non solo il marito deve amare la moglie, ma anche la moglie il marito; non solo la moglie deve essere sottomessa al marito, ma anche il marito alla moglie. La sottomissione non è allora che un aspetto e un’esigenza dell’amore. Per chi ama, sottomettersi all’oggetto del proprio amore non umilia, ma rende anzi felici. Sottomettersi significa, in questo caso, tener conto della volontà del coniuge, del suo parere e della sua sensibilità; dialogare, non decidere da solo; saper a volte rinunciare al proprio punto di vista. Insomma, ricordarsi che si è diventati “coniugi”, cioè, alla lettera, persone che sono sotto “lo stesso giogo” liberamente accolto.
La Bibbia pone un rapporto stretto tra l’essere creati “a immagine di Dio” e il fatto di essere “maschio e femmina” (cf. Gen 1, 27). La somiglianza consiste in questo. Dio è unico e solo, ma non è solitario. L’amore esige comunione, scambio interpersonale; richiede che ci siano un “io” e un “tu”. Per questo il Dio cristiano è uno e trino. In lui coesistono unità e distinzione: unità di natura, di volere, di intenti, e distinzione di caratteristiche e di persone. Proprio in questo la coppia umana è immagine di Dio. La famiglia umana è un riflesso della Trinità. Marito e moglie sono infatti una carne sola, un cuore solo, un’anima sola, pur nella diversità di sesso e di personalità. Gli sposi stanno di fronte, l’uno all’altro, come un “io” e un “tu” e stanno di fronte a tutto il resto del mondo, cominciando dai propri figli, come un “noi”, quasi si trattasse di una sola persona, non più però singolare ma plurale. “Noi”, cioè “tua madre ed io”, “tuo padre ed io”. Così parlò Maria a Gesú, dopo averlo ritrovato nel tempio.
Lo sappiamo bene che questo è l’ideale e che, come in tutte le cose, la realtà è spesso assai diversa, più umile e più complessa, a volte addirittura tragica. Ma siamo così bombardati dai casi negativi di fallimento che forse, per una volta, non è male riproporre l’ideale della coppia, prima sul piano semplicemente naturale e umano e poi su quello cristiano. Guai se si arrivasse a vergognarsi degli ideali, in nome di un malinteso realismo. La fine di una società sarebbe, in questo caso, segnata. I giovani hanno diritto di vedersi trasmettere, dai grandi, degli ideali e non solo scetticismo e cinismo. Nulla ha la forza di attrazione che possiede l’ideale.
Santa Famiglia 29 Dicembre 2013
di ENZO BIANCHI
Anno AMatteo 2,13-15.19-23

A Natale abbiamo contemplato nel vangelo secondo Luca la nascita di Gesù a Betlemme, mentre la madre Maria e il padre secondo la Legge, Giuseppe, erano in viaggio a causa del censimento voluto dall’imperatore romano (cf. Lc 2,1-14). Oggi, prima domenica dopo Natale, la chiesa ci fa contemplare nel vangelo secondo Matteo la famiglia di Gesù, il suo essere nato in una genealogia di ebrei discendenti dal re e messia David (cf. Mt 1,1-17). Ognuno di noi nasce da una madre, è accolto da qualcuno, da una famiglia che lo nutre e lo fa crescere, e in questo modo viene al mondo. È stato così anche per Gesù.
Ma questa famiglia che storia aveva? Era una famiglia il cui padre era un artigiano, una famiglia povera ma non misera, ma alla nascita di quel figlio ecco emergere un grave pericolo per lui. Un decreto di Erode prescriveva l’uccisione dei bambini maschi, perché secondo i magi tra di loro era nato il Messia di Israele (cf. Mt 2,2.16-18).
Giuseppe allora fu avvertito in sogno da un angelo: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto”, e, sempre nel suo silenzio, subito obbedì e si ritirò in quella terra straniera. Furono anni di esilio, di stranierità, vissuti in mezzo a un popolo dalla lingua e dalla cultura diversa, dove questa famiglia conobbe lo statuto dell’emigrante: solitudine, diffidenza, difficoltà a vivere… Ma ecco, finito il pericolo per Gesù a causa della morte di Erode, di nuovo l’angelo disse a Giuseppe in sogno: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino”. E Giuseppe, sempre con prontezza, nel silenzio realizza la parola del Signore.
Si tratta dunque di una vicenda umanissima che rese la famiglia di Gesù perseguitata, migrante, straniera, ma nello stesso tempo comprendiamo come questa quotidiana e semplice vicenda fosse anche un adempimento della promessa di Dio e fosse un ricapitolare una storia che era stata quella di Abramo, di Israele e dei suoi figli, del popolo entrato in alleanza con il Dio vivente. Infatti Abramo era sceso in Egitto e dall’Egitto era risalito, Giacobbe e i suoi figli vi erano discesi in cerca di cibo e poi ne erano risaliti come popolo.
È il cammino della discesa e dell’esodo-salita, quello che Gesù compie con Maria e Giuseppe, sicché anche lui potrà considerarsi salvato, come il credente ebreo proclama la notte di Pasqua: “In ogni generazione ciascuno deve considerare se stesso come se proprio lui in quella notte fosse uscito dall’Egitto”. Ma possiamo anche scorgere un parallelo tra la storia di Gesù e quella di Mosè, anche lui minacciato di morte dal faraone (cf. Es 2,15), anche lui in fuga in terra straniera, anche lui tornato dall’esilio, su ordine del Signore, per adempiere la sua missione verso il popolo (cf. Es 4,19-20).
Storia quotidiana, ma agli occhi di chi ha fede anche storia di salvezza. Storia di una famiglia simile a tante storie delle nostre famiglie: condizioni di vita difficili, allevare e far crescere un figlio in condizioni precarie, mutare casa e luogo in cui vivere, e certamente le fatiche del vivere insieme di una coppia e di un figlio…
Ma in questa pagina dobbiamo mettere in evidenza la fede e l’obbedienza pronta di Giuseppe, così come a Natale avevamo meditato sulla fede e l’obbedienza di Maria. Giuseppe è l’uomo giusto (cf. Mt 1,19), che sa discernere la voce di Dio mentre dorme: non ha visioni né teofanie, ma soltanto una voce in sogno, un ordine, al quale obbedisce realizzando subito quelle parole. La sua giustizia viene sempre dalla sua obbedienza, che predispone tutto perché si possa adempiere nella storia la promessa di Dio.
Matteo lo dice alla fine del racconto, citando il profeta Osea: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio” (Os 11,1). Ovvero, come Dio ha chiamato suo figlio, il popolo di Israele, dall’Egitto verso la terra promessa, così ha chiamato suo Figlio Gesù il Messia dall’Egitto, perché potesse un giorno iniziare la sua missione pubblica nella sua terra, la terra dei suoi padri e del suo popolo, per il quale era stato inviato da Dio stesso. E così tutto inizierà da Nazaret, che gli darà anche il soprannome Nazareno.
Fr. Enzo Bianchi, Priore di Bose
Anno AMatteo 2,13-15.19-23

A Natale abbiamo contemplato nel vangelo secondo Luca la nascita di Gesù a Betlemme, mentre la madre Maria e il padre secondo la Legge, Giuseppe, erano in viaggio a causa del censimento voluto dall’imperatore romano (cf. Lc 2,1-14). Oggi, prima domenica dopo Natale, la chiesa ci fa contemplare nel vangelo secondo Matteo la famiglia di Gesù, il suo essere nato in una genealogia di ebrei discendenti dal re e messia David (cf. Mt 1,1-17). Ognuno di noi nasce da una madre, è accolto da qualcuno, da una famiglia che lo nutre e lo fa crescere, e in questo modo viene al mondo. È stato così anche per Gesù.
Ma questa famiglia che storia aveva? Era una famiglia il cui padre era un artigiano, una famiglia povera ma non misera, ma alla nascita di quel figlio ecco emergere un grave pericolo per lui. Un decreto di Erode prescriveva l’uccisione dei bambini maschi, perché secondo i magi tra di loro era nato il Messia di Israele (cf. Mt 2,2.16-18).
Giuseppe allora fu avvertito in sogno da un angelo: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto”, e, sempre nel suo silenzio, subito obbedì e si ritirò in quella terra straniera. Furono anni di esilio, di stranierità, vissuti in mezzo a un popolo dalla lingua e dalla cultura diversa, dove questa famiglia conobbe lo statuto dell’emigrante: solitudine, diffidenza, difficoltà a vivere… Ma ecco, finito il pericolo per Gesù a causa della morte di Erode, di nuovo l’angelo disse a Giuseppe in sogno: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino”. E Giuseppe, sempre con prontezza, nel silenzio realizza la parola del Signore.
Si tratta dunque di una vicenda umanissima che rese la famiglia di Gesù perseguitata, migrante, straniera, ma nello stesso tempo comprendiamo come questa quotidiana e semplice vicenda fosse anche un adempimento della promessa di Dio e fosse un ricapitolare una storia che era stata quella di Abramo, di Israele e dei suoi figli, del popolo entrato in alleanza con il Dio vivente. Infatti Abramo era sceso in Egitto e dall’Egitto era risalito, Giacobbe e i suoi figli vi erano discesi in cerca di cibo e poi ne erano risaliti come popolo.
È il cammino della discesa e dell’esodo-salita, quello che Gesù compie con Maria e Giuseppe, sicché anche lui potrà considerarsi salvato, come il credente ebreo proclama la notte di Pasqua: “In ogni generazione ciascuno deve considerare se stesso come se proprio lui in quella notte fosse uscito dall’Egitto”. Ma possiamo anche scorgere un parallelo tra la storia di Gesù e quella di Mosè, anche lui minacciato di morte dal faraone (cf. Es 2,15), anche lui in fuga in terra straniera, anche lui tornato dall’esilio, su ordine del Signore, per adempiere la sua missione verso il popolo (cf. Es 4,19-20).
Storia quotidiana, ma agli occhi di chi ha fede anche storia di salvezza. Storia di una famiglia simile a tante storie delle nostre famiglie: condizioni di vita difficili, allevare e far crescere un figlio in condizioni precarie, mutare casa e luogo in cui vivere, e certamente le fatiche del vivere insieme di una coppia e di un figlio…
Ma in questa pagina dobbiamo mettere in evidenza la fede e l’obbedienza pronta di Giuseppe, così come a Natale avevamo meditato sulla fede e l’obbedienza di Maria. Giuseppe è l’uomo giusto (cf. Mt 1,19), che sa discernere la voce di Dio mentre dorme: non ha visioni né teofanie, ma soltanto una voce in sogno, un ordine, al quale obbedisce realizzando subito quelle parole. La sua giustizia viene sempre dalla sua obbedienza, che predispone tutto perché si possa adempiere nella storia la promessa di Dio.
Matteo lo dice alla fine del racconto, citando il profeta Osea: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio” (Os 11,1). Ovvero, come Dio ha chiamato suo figlio, il popolo di Israele, dall’Egitto verso la terra promessa, così ha chiamato suo Figlio Gesù il Messia dall’Egitto, perché potesse un giorno iniziare la sua missione pubblica nella sua terra, la terra dei suoi padri e del suo popolo, per il quale era stato inviato da Dio stesso. E così tutto inizierà da Nazaret, che gli darà anche il soprannome Nazareno.
Fr. Enzo Bianchi, Priore di Bose
Il dialogo al tempo di Francesco
Intervista al cardinale Tauran.
(Mario Ponzi) «Dopo il Papa “teologo” — anche del dialogo tra le religioni — l’elezione di un Pontefice con uno stile diretto e semplice e con una capacità sorprendente di comunicazione fa ben sperare che il dialogo continuerà, rafforzandosi». Ne è convinto il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, che in questa intervista al nostro giornale traccia un bilancio delle attività del dicastero in questo anno che sta per concludersi. Attività fortemente caratterizzate dallo storico passaggio di testimone tra i due Papi e dalle ripercussioni che le novità del pontificato di Francesco hanno avuto anche nei rapporti con le altre religioni.
Che cosa hanno significato per il vostro dicastero la rinuncia di Benedetto XVI e l’elezione di Papa Francesco?
Entrambi hanno profondamente segnato il cammino della Chiesa, non senza ricadute anche sul dialogo interreligioso: in occasione della rinuncia, a Benedetto XVI sono giunti messaggi e segni di vicinanza e gratitudine anche da parte di leader religiosi e credenti appartenenti ad altre tradizioni religiose. Del resto, a questo tema egli ha dedicato un gran numero di discorsi, messaggi e incontri, come testimonia anche il volume Il dialogo interreligioso nell’insegnamento ufficiale della Chiesa cattolica (1963-2013)pubblicato di recente dal nostro Pontificio Consiglio. Vicinanza ed entusiasmo sono stati espressi anche quando è stato eletto il Pontefice «preso alla fine del mondo». Nel solco dei suoi predecessori, Papa Bergoglio ha invitato a proseguire sulla via del dialogo. E così il nostro dicastero ha continuato la sua intensa attività al servizio di rapporti di rispetto reciproco, migliore mutua conoscenza e collaborazione tra cattolici e seguaci di altre religioni. Lo ha fatto con la solita attenzione al ruolo insostituibile delle Chiese locali. Se infatti il Pontificio Consiglio è un “laboratorio” per il dialogo, la messa in pratica di tale processo avviene “sul campo”, dove i cattolici e i cristiani in generale vivono accanto ai credenti di altre religioni. Infatti, è una costante del dicastero svolgere la missione a esso affidata in collaborazione con le Chiese locali, in particolare le Conferenze episcopali e le loro commissioni per il dialogo interreligioso.
Quali sono state le novità portate da Papa Francesco nel vostro campo specifico?
Sono state diverse, a cominciare dal gesto insolito durante l’udienza concessa ai rappresentanti di altre Chiese cristiane e altre religioni, il 20 marzo, giorno successivo alla messa di inizio del suo ministero petrino: la richiesta di preghiera da parte del Pontefice. A lui alcuni dei presenti hanno risposto: «Siamo noi ad aver bisogno della sua preghiera». Abbiamo potuto riscontrare, ancora una volta, l’attenzione con cui si guarda alla Chiesa cattolica anche da parte di coloro che professano altre religioni. Poi c’è stato il suo invito, lo scorso 7 settembre, a digiunare e a pregare per la pace in Medio Oriente, in particolare in Siria. L’invito, al quale hanno aderito diversi rappresentanti di varie tradizioni religiose, è stato accolto molto positivamente in particolare dai musulmani, alcuni dei quali si sono uniti alla preghiera per la pace indetta da Papa Francesco. Da ultimo ha molto colpito la decisione di firmare personalmente il tradizionale messaggio che il Pontificio Consiglio invia ai musulmani, fin dal 1967, in occasione della fine del Ramadan.
A proposito del dialogo con l’islam, quali sono stati i momenti più importanti in questo 2013?
Esistono rapporti di amicizia e collaborazione con le varie anime di questa grande realtà. Tra i dialoghi meglio strutturati c’è quello con il Centro per il dialogo interreligioso dell’Islamic Culture and Relations Organization (Iran), in particolare in vista del ixcolloquio congiunto, in programma a Teheran nel 2014, che sarà preceduto da una riunione preparatoria. I partner iraniani del dicastero si dimostrano sempre aperti e disponibili ad affrontare anche temi spirituali o teologici, oltre a essere ben preparati. Esiste poi il Comitato islamo-cattolico di collegamento, costituito dal nostro dicastero e dall’International Islamic Forum for Dialogue, con sede in Arabia Saudita. Inoltre si stanno facendo tanti sforzi per riprendere il dialogo sospeso dal 2011 con al-Azhar, al Cairo, in Egitto, il più prestigioso istituto dell’islam sunnita, con l’augurio che i rapporti possano ristabilirsi, riprendendo un dialogo iniziato nel 1998. È da ricordare ancora il partenariato con il Royal Institute for Inter-Faith Studies, ad Amman, in Giordania, iniziato nel 2007, e la costituzione del Forum cattolico islamico, che risale al 5 marzo 2008. Un altro partner del Pontificio Consiglio è la Presidenza degli Affari Religiosi (Diyanet) in Turchia: una dichiarazione d’intenti per avviare una stretta collaborazione è stata siglata a Roma nel 2002.
Iniziative che assumono un valore particolare in un’area geografica come quella mediorientale, ancora segnata da destabilizzazione e conflitti.
Infatti. Alla luce dell’attuale situazione politica, sociale e religiosa, è significativo, per esempio, il nuovo partenariato stabilito il 30 ottobre scorso con le sovrintendenze sciita, sunnita, cristiana, yazida e sabea, che hanno sede a Baghdad, in Iraq. Lo scopo di tale iniziativa è stato quello di avviare una collaborazione fra il dicastero vaticano e le comunità religiose irachene. La prima importante riunione ha offerto l’opportunità di approfondire la reciproca conoscenza e di valutare ulteriori prospettive di dialogo, in particolare attraverso lo stabilimento di un comitato permanente per il dialogo. Oltre a questi tipi di partenariati, il dicastero coopera con enti civili per la promozione del dialogo interreligioso, come il Centro internazionale di Doha per il dialogo interreligioso, il Congresso dei leader delle religioni mondiali e tradizionali, promosso dal presidente della Repubblica del Kazakhstan, e il King Abdullah bin Abdul Aziz International Centre for Interreligious and Intercultural Dialogue (Kaiciid). Esiste pure una collaborazione su alcuni progetti con la Religions for Peace, con sede a New York. Più in generale, non bisogna dimenticare la commissione per i rapporti religiosi con i musulmani istituita da Paolo VI nel 1974, come organismo d’informazione e di riflessione, presso il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, ma distinta da esso. La provenienza dei consultori da diverse aree geo-religiose del mondo — attualmente Iraq, ma anche Nigeria, Stati Uniti d’America, Italia, Germania, Pakistan, Gran Bretagna — consente di approfondire da un punto di vista teorico e pratico temi relativi, in particolare, ai rapporti tra cristiani e musulmani nel modo in cui si pongono in Paesi diversi.
Per quanto riguarda l’islam, quali sono le scadenze più significative in calendario il prossimo anno?
Segnalerei anzitutto il seminario che avrà luogo a Roma, dall’11 al 13 novembre, sul tema: «Lavorare insieme per servire gli altri», nel quadro degli incontri scaturiti dopo la lettera aperta che, nel novembre 2007, 138 esponenti musulmani, di differenti tradizioni e ruoli, indirizzarono a Benedetto XVI e ad altri responsabili di Chiese e comunità cristiane. Per quanto riguarda poi i musulmani in Asia e in Oceania, facendo seguito alla mia visita in Indonesia nel 2009, è prevista nel 2014 una visita del segretario del dicastero nel Paese asiatico per incontrare la Chiesa locale, in particolare le persone e le istituzioni coinvolte nel dialogo interreligioso, nonché i responsabili di Nandlatul Ulama e Muhammadiyah, le due maggiori organizzazioni islamiche dell’Indonesia, per esplorare le possibilità di avviare relazioni formali.
Nel contesto geografico asiatico esistono diverse altre religioni. Che progressi ci sono stati nei rapporti tra il Pontificio Consiglio e gli esponenti delle diverse scuole e organizzazioni buddiste e shintoiste?
Hanno continuato a svilupparsi e arricchirsi attraverso incontri e visite. Il 6 maggio scorso, all’Urbaniana, si è svolto il colloquio buddista-cristiano «Pace interiore, pace tra i popoli», frutto anche di precedenti incontri con rappresentanti del buddismo in Italia appartenenti alle tre principali correnti buddiste. Più in generale, riguardo alle religioni e ai nuovi movimenti religiosi giapponesi, diverse sono state le visite nel Paese e numerose sono le occasioni di incontro e di scambio con rappresentanti del buddismo, dello shintoismo e di altri movimenti religiosi. Ogni anno, tranne rare eccezioni, il nostro dicastero ha partecipato al Religious summit meeting del Monte Hiei, all’inizio del mese di agosto. Frequenti sono inoltre gli incontri, a Roma e altrove, con i rappresentanti del movimento buddista laico Rissho Kosei-kai con i quali intratteniamo da tempo cordiali rapporti. Non mancano pure occasioni per incontri di dialogo con i seguaci dello shintoismo. A proposito di questa religione, è bene ricordare che il Pontificio Consiglio sta cercando di avviare un dialogo ufficiale. In tal senso verrà inviato un messaggio di auguri in occasione di una loro festività. Da tempo il dicastero intrattiene relazioni amichevoli anche col movimento Tenrikyo. Infine, un settore particolare di dialogo è quello monastico, atteso il rilevante apporto che l’esperienza monastica può dare al dialogo interreligioso.
Un’altra grande realtà, soprattutto dal punto di vista numerico, è quella dell’induismo. Le persecuzioni dei cristiani in alcune regioni del subcontinente indiano hanno fatto segnare il passo al dialogo?
Direi di no. Il Pontificio Consiglio ha continuato anche quest’anno a promuovere il dialogo cristiano-induista attraverso numerosi contatti con rappresentanti di varie organizzazioni indù, avviando anche relazioni formali con loro. In collaborazione con la Chiesa d’Inghilterra e del Galles, dal 12 al 16 giugno abbiamo organizzato l’incontro «Cattolici e indù: compassione come contributo alla pace» che si è tenuto a Neasden, Londra. «Insieme in preghiera per la pace» è stato il tema di una riunione multireligiosa durante la quale i rappresentanti di nove religioni presenti in Inghilterra hanno pregato. Al termine è stato preso un impegno a favore della pace. Sempre in Inghilterra, con i sikh, si è tenuto nel 2013 un meeting a Birmingham sul tema «Cattolici e sikh: servizio all’umanità come contributo alla pace». L’ormai multietnica e multireligiosa Inghilterra ha inoltre ospitato a giugno un incontro promosso dal nostro dicastero e dai giainisti a Londra, sul tema «Cattolici e giainisti: non-violenza come contributo alla pace».
E per quanto riguarda il dialogo in Africa?
Dal 2004 il dicastero si sta adoperando per promuovervi la formazione dei giovani al dialogo, continuando a dare la dovuta attenzione alle religioni tradizionali africane. Sono in programma iniziative specifiche di dialogo con i loro seguaci.
Cosa c’è in cantiere il prossimo anno?
Poiché il dialogo promosso dal nostro Pontificio Consiglio ha continuato e si è anche rafforzato, nonostante difficoltà interne ed esterne, abbiamo il dovere di proseguire lungo la strada intrapresa cercando anche di migliorare. D’altro canto, il dicastero si accinge a celebrare il cinquantesimo anniversario della sua istituzione — avvenuta il 19 maggio 1964, quando nacque il Segretariato per i non-cristiani, divenuto dal 28 giugno 1988 Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso — e della successiva promulgazione della dichiarazione conciliare Nostra aetate (28 ottobre 1965), la magna charta del dialogo interreligioso.
L'Osservatore Romano
Cina vicina vicina
Istituti Confucio, avamposti di Pechino in Italia
di Massimo Introvigne
In nove città italiane – Napoli, Roma, Bologna, Milano, Torino, Venezia, Macerata, Pisa, Padova – una sorridente propaganda invita a frequentare gli Istituti Confucio, dove s’imparano a condizioni convenienti la lingua cinese – così utile per gli affari – ed elementi della cultura della Cina. In Italia la diffusione degli Istituti Confucio è iniziata da Napoli, in collaborazione con la prestigiosa Università L’Orientale. Nel mondo gli Istituti – a partire dal primo, fondato a Tashkent nell’Uzbekistan nel 2004 – sono 320, e un piano prevede di arrivare a mille entro il 2020. Un piano di chi? Di una branca del governo di Pechino chiamata Hanban, che è Ufficio nazionale per l’insegnamento del cinese come lingua straniera: un nome apparentemente innocuo, che sembrerebbe assimilare questa organizzazione a quelle che in Germania promuovono nel mondo i Goethe Institut e in Francia le sedi dell’Alliance Française. Ma il paragone è ingannevole: il Goethe o l’Alliance Française sono sostenuti dai rispettivi governi, ma sono indipendenti, mentre l’Hanban è parte integrante della macchina governativa cinese. Inoltre, a differenza degli istituti che promuovono il tedesco e il francese, gli Istituti Confucio sono stati accusati di spionaggio e di legami con i servizi segreti cinesi.
Queste ultime accuse per la verità non sono state provate, e ogni volta che qualcuno le lancia la reazione della diplomazia cinese è durissima. Questa reazione non ha però potuto placare le critiche sul piano culturale e politico, che – senza entrare nella questione dello spionaggio – mettono in luce le ambiguità degli Istituti Confucio e il loro uso da parte del regime come strumento di propaganda politica. Nel 2012 anche AsiaNews, la prestigiosa agenzia cattolica del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME) specializzata in vicende asiatiche, ha pubblicato uno studio di Alan H. Yang e Michael Hsiao intitolato «Gli Istituti Confucio, “cavalli di Troia” dell’egemonia cinese».
Lo studio del PIME mette in luce anche come il nome degli Istituti Confucio sia ingannevole. Questi istituti infatti non diffondono la cultura confuciana, benché ogni tanto facciano cenno al fatto che questa sarebbe stata recuperata come codice morale dall’attuale governo cinese. Secondo Yang e Hsiao l’avversione per il confucianesimo che viene dalla Rivoluzione culturale è invece tuttora diffusa nel regime cinese, e il marchio Confucio è usato perché piace agli occidentali senza corrispondere a un contenuto reale.
Dalla BBC ai grandi quotidiani statunitensi e canadesi, molti media hanno cercato di scavare nel retroterra degli Istituti Confucio e si sono imbattuti in dichiarazioni – per uso interno cinese – di esponenti del regime secondo cui si tratta di «propaganda culturale», intesa a trasmettere un’immagine positiva della Cina attuale. Le direttive del regime agli Istituti Confucio suggeriscono interventi sorridenti ma fermi per scoraggiare ogni critica a proposito delle «tre T»: il Tibet, Taiwan e Piazza Tienanmen, cioè la repressione dei dissidenti interni, cui si aggiunge la persecuzione del nuovo movimento religioso Falun Gong.
Dalla BBC ai grandi quotidiani statunitensi e canadesi, molti media hanno cercato di scavare nel retroterra degli Istituti Confucio e si sono imbattuti in dichiarazioni – per uso interno cinese – di esponenti del regime secondo cui si tratta di «propaganda culturale», intesa a trasmettere un’immagine positiva della Cina attuale. Le direttive del regime agli Istituti Confucio suggeriscono interventi sorridenti ma fermi per scoraggiare ogni critica a proposito delle «tre T»: il Tibet, Taiwan e Piazza Tienanmen, cioè la repressione dei dissidenti interni, cui si aggiunge la persecuzione del nuovo movimento religioso Falun Gong.
Né si tratta soltanto di propaganda. Gli Istituti Confucio stipulano accordi con grandi università – a Londra, per esempio, la London School of Economics – e istituzioni pubbliche, a condizioni vantaggiose per questi enti occidentali, sui quali poi esercitano una cortese pressione perché sia repressa ogni critica del regime di Pechino sui temi sensibili e sui diritti umani. Così la North Carolina State University è stata «persuasa» a cancellare una visita del Dalai Lama, che avrebbe potuto parlare dello sgradito tema dei diritti umani nel Tibet occupato dalla Cina, e l’Università di Tel Aviv a chiudere una mostra sulla repressione del Falun Gong organizzata da un gruppo studentesco. Non tutte le ciambelle cinesi riescono col buco: a Tel Aviv gli studenti si sono rivolti al tribunale, che ha dato loro ragione, sostenendo che la loro «libertà di espressione» era stata violata a causa del timore dell’università di «mettere in pericolo la sua relazione con l’Istituto Confucio». E in altre università americane, nonostante la discreta opposizione dei locali Istituti Confucio, il Dalai Lama è stato accolto.
Resta però il problema se sia opportuno che istituzioni pubbliche europee e americane accolgano «cavalli di Troia» di un regime che viola costantemente i diritti umani e la libertà religiosa. Come al solito, tutto dipende dal giudizio sulla Cina. Se, in nome degli interessi commerciali, vogliamo vedere solo la facciata luccicante del Paese con il maggior numero di negozi di Prada allora non saremo troppo preoccupati neanche dalla propaganda degli Istituti Confucio. Può darsi invece che, oltre al portafoglio, c’interessino i diritti umani che continuano a essere violati, la persecuzione dei cattolici fedeli a Roma, o la situazione dei poveri ben poco favoriti dalla crescita del PIL in un Paese, la Cina, che è una prova vivente della teoria esposta da Papa Francesco nell’esortazione apostolica «Evangelii gaudium» – e criticata da qualche economista americano, che forse non aveva ben presente proprio l’esempio cinese – secondo cui la crescita economica non va automaticamente a beneficio dei più disagiati. In questo caso, ci accosteremo anche agli Istituti Confucio con la necessaria prudenza e cautela.
kairosterzomillennio
Natale nel mondo arabo...
... dove lo si vuole vietare
di Naman Tarcha*
Il 25 dicembre come ogni anno si celebra la nascita di Gesù Cristo a Betlemme.Ma il Natale, considerato una delle due grandi festività dei cristiani nel mondo, oggi non si festeggia più nella maggior parte dei paesi del Medio Oriente.In realtà, fino a qualche anno fa, in alcuni paesi arabi a maggioranza mussulmana come Siria, Libano, e Giordania si festeggiava come in tutto il resto del mondo, anzi, il 25 Dicembre era perfino considerata festa nazionale per tutto il paese.
Per i cristiani d'Oriente, gli ultimi cinque anni sono stati disastrosi a causa dei conflitti e delle guerre ancora in atto in diversi paesi arabi: sia per coloro che, costretti , hanno abbandonato i propri paesi, sia per quelli che si trovano assediati nelle città, privi di sicurezza e di beni primari.
Considerata una festività occidentale, malgrado Cristo sia riconosciuto e rispettato dall'islam, in diversi paesi arabi del golfo sono vietate manifestazioni e celebrazioni pubbliche, ma anche addobbi, cartoline e regali natalizi. Tutto ciò ovviamente a scapito delle comunità cristiane composte da varie nazionalità, che spesso si trovano nei paesi del golfo anche per lavoro : europei, asiatici e cristiani mediorientali. A volte la festività cristiana ha connotazioni e aspetti puramente commerciali, con addobbi e alberi di Natale allestiti anche dai comuni e dai centri commerciali, che si attrezzano per vendere di più, e per attirare i turisti nei paesi arabi.
Malgrado tutto ciò, ogni anno arrivano puntuali le campagne anti-Natale con un mare di critiche e proteste, provenienti dai vari gruppi estremisti e radicali, sui festeggiamenti del "Christmas".
Il predicatore islamista egiziano Al Qaradawi guida da anni campagne contro gli addobbi natalizi, reazione scatenata la prima volta dopo che un centro commerciale del Qatar aveva osato mettere un albero di Natale, accusando l'Europa di attuare politiche discriminatorie nei confronti delle comunità islamiche.
Sconcertante invece la fatwa dei leader religiosi musulmani in Indonesia che vieta i festeggiamenti natalizi e le festività cristiane, inclusi gli scambi di auguri con i cristiani: una fatwa senza fondamenta religiose, che parte dalla regola secondo cui "se frequenti certa gente assomigli a loro alla fine, e se fai gli auguri per una festa è come se la celebrassi anche tu".
Le feste Natalizie hanno avuto questo giorni grande spazio nei giornali arabi per il caso del deputato salafita del Kuwait Hamoud Hamdan, che ha chiesto di vietare severamente qualsiasi tipo di festeggiamento natalizio, essendo il Paese, secondo lui, conservatore, educato e sulla retta via del rispetto dei precetti della fede islamica. Hamdan sostiene che negli ultimi anni si sono diffuse feste occidentali estranee, anche se Gesù è nato in Medio Oriente, accusando i governi del golfo di tollerare feste a celebrazione mista (maschi e femmine insieme) con consumo di alcool in alberghi e ristoranti, ed invoca l'applicazione delle leggi della Sharia su tutti. Per Hamdan, celebrare festività non islamiche è ammettere implicitamente la legittimita' di ciò che viene ricordato: secondo le parole del profeta "chi imita un popolo diventa uno di loro"!
I governi arabi si trovano quindi di fronte ad un bivio: accontentare i gruppi religiosi estremisti e le correnti radicali, o mantenere un' immagine più tollerante ed aperta, rispettando le comunità residenti nei vari paesi, e soprattutto mostrarsi come una società più globalizzata e meno rigida nei confronti dell'altro, a prescindere da provenienza, colore, e religione.
*Giornalista conduttore e redattore tv. Siriano di Aleppo, laureato in Comunicazione all'Università Pontificia Salesiana di Roma, vive e lavora da anni in Italia. Ricercatore, ed esperto di Mass Media e Cultura araba, e dell’area mediorientale.
kairosterzomillennio
sabato 28 dicembre 2013
Dieci anni fa veniva ucciso in Burundi il nunzio Courthney: all'odio oppose la testimonianza cristiana
Ricorre questa domenica il decimo anniversario della morte dell’arcivescovo Michael Aiden Courtney, nunzio apostolico in Burundi, ucciso il 29 dicembre 2003 da colpi d’arma da fuoco, nei pressi di Bujumbura. Il movente e gli autori del delitto restano ancora ignoti. Il Paese nei primi anni Duemila viveva un periodo di transizione, dopo una sanguinosa guerra civile e una difficile convivenza etnica tra hutu e tutsi. I tentativi di pacificazione erano portati avanti, tra gli altri, dalla Comunità di Sant’Egidio: tra i suoi operatori, anche don Angelo Romano, oggi rettore della Basilica romana di San Bartolomeo all’Isola. A lui, Giada Aquilino ha chiesto un ricordo di mons. Courtney e del Burundi di quegli anni:
R. - Era l’anno in cui il Burundi faticosamente stava cercando di uscire dalla guerra civile, che era iniziata esattamente dieci anni prima, nel ’93; adesso sono 20 anni da quella data. Nell’ottobre del ’93 era stato ucciso il primo presidente democraticamente eletto del Paese, Melchior Ndadaye: si scatenò una guerra che era insieme politica ed etnica. Nel 2000 poi ci furono gli accordi di Arusha, in Tanzania, fatti con la mediazione prima di Mwalimu Nyerere e poi di Nelson Mandela: accordi cui la Comunità di Sant’Egidio aveva attivamente partecipato. A queste intese seguì una fase molto lunga di applicazione degli accordi e di coinvolgimento delle fazioni armate, che non erano comprese negli accordi di Arusha: ce ne erano alcuni che erano rimasti fuori, tra cui il movimento al quale appartiene l’attuale presidente del Burundi, Pierre Nkurunziza, e altri movimenti importanti. Quindi nel 2003 si era verso la fine della guerra e, come spesso avviene, le fasi finali dei conflitti sono anche molto sanguinose. Purtroppo mons. Courtney è rimasto vittima proprio di un attacco durante questa fase conclusiva. La sua morte è però significativa perché, così come tanti sacerdoti, vescovi e missionari che sono morti durante questo conflitto, è in qualche modo il segno di una vicinanza della Chiesa cattolica alla popolazione, che ha sofferto enormemente durante questo conflitto.
D. - Perché fu ucciso il nunzio Courtney?
R. - Le circostanze della sua morte rimangono abbastanza oscure. Si sa soltanto che, mentre viaggiava, la sua automobile venne attaccata e fu ucciso. Le ragioni di questo omicidio non sono chiare: c’è anche il dubbio se volessero veramente attaccare il nunzio o se mons. Courtney rimase vittima di un attacco indiscriminato fatto lungo le vie di comunicazione, come avveniva spesso nel conflitto burundese. Una cosa è certa: il nunzio è stato ucciso perché si spendeva per la pace e quindi era una persona vulnerabile in quanto girava il Paese. Lui aveva preso la sua funzione di nunzio in Burundi con grande serietà e con grande impegno e questo lo portava a visitare molte diocesi e molte parti del Burundi, esponendosi a quelli che erano i rischi di questo tipo di azione. Quindi non c’è dubbio che la sua morte si iscrive anche nel segno di un dono fatto al Paese, perché il suo contributo alla pace nasce proprio dal fatto che - come tanti morti durante il conflitto - non sia fuggito da una situazione di pericolo, ma al contrario sia rimasto vicino alla gente.
D. - L’arcivescovo Courtney predicava l’amore reciproco, la riconciliazione cristiana, l’armonia e l’unità tra le persone. Non a caso la Conferenza episcopale burundese ha dedicato il 29 dicembre alla Giornata speciale di preghiera per la pace e la riconciliazione nel Paese. A che punto è oggi il Burundi?
R. - Non c’è dubbio che, se guardiamo retrospettivamente, vediamo che è anche un Paese che ha saputo trovare la sua strada per la pace. Indubbiamente ci sono molti problemi, ma oggi nel Parlamento siedono quelli che prima erano i nemici, quelli che prima si facevano la guerra. Il Paese appartiene agli hutu, ai tutsi, ai twa - i pigmei - e agli swahili e a quelli che hanno scelto di abitarci. E’ un Paese che deve trovare una sua armonia e penso che - con fatica e dopo quasi 250 mila morti - la stia trovando anche grazie al sacrificio di persone come il nunzio Courtney.
D. - All’Angelus di Santo Stefano, Papa Francesco ha esortato tutti i cristiani a pregare per quanti sono perseguitati a causa della loro fede in Gesù, ricordando che le persecuzioni sono comunque occasione per rendere testimonianza. Quindi l’esempio di mons. Courtney qual è in tal senso?
R. - In tal senso è l’esempio di una persona che alla logica terribile dell’odio etnico ha opposto una vera testimonianza cristiana. Mons. Courtney di fronte alla predicazione dell’odio - perché c’era una predicazione dell’odio durante il conflitto burundese - ha opposto, insieme a tutta la Chiesa cattolica burundese, una predicazione in senso opposto...
D. - Per Sant’Egidio, da sempre impegnata in Burundi, qual è la speranza? Qual è l’auspicio per il futuro del Paese africano?
R. - Che il Paese continui sulla strada della riconciliazione: qui e là ci sono dei segni preoccupanti, certo. Credo che la storia del Burundi debba essere la storia e l’esempio di un Paese piccolo - sono 6 milioni di abitanti ed è grande territorialmente quanto il Belgio - che sta cercando di costruire una pagina nuova. Io credo che, in questo senso, i cristiani e la Chiesa siano chiamati veramente a fornire gli elementi per questa costruzione, perché il Paese non possa più rivivere gli orrori del passato
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Messe a Santa Marta. Falasca:sono il cuore della visione ecclesiale di Papa Francesco
E’ notizia di ieri che, da gennaio prossimo, le parrocchie romane potranno partecipare, con dei piccoli gruppi, alle Messe di Papa Francesco a Casa Santa Marta. Proprio queste Messe quotidiane, con le omelie di cui per prima offre una sintesi la nostra emittente, sono – ad unanime giudizio – tra le più belle novità del Pontificato di Papa Francesco. Per una riflessione al riguardo, Alessandro Gisotti ha intervistato la giornalista Stefania Falasca, legata a Jorge Mario Bergoglio da una lunga amicizia:
R. – Ormai, dopo nove, dieci mesi del suo Pontificato abbiamo visto che costituiscono un riferimento, un appuntamento atteso, anzitutto per il cammino della fede di tutti, cammino quotidiano. Io credo che possiamo riassumere l’importanza di questo, che costituisce indubbiamente una novità del Pontificato di Francesco in tre punti. Primo, che si vede anche nella Evangellii gaudium, Francesco ha voluto mettere in evidenza il primato della Parola, dell’annuncio. Secondo è che sono al cuore della riforma stessa che sta attuando Francesco. E terzo è che sono paradigmatiche, non solo del suo Magistero, ma proprio della visione ecclesiale che ci sta prospettando Francesco.
D. – Quanto sono importanti, proprio per il pastore Bergoglio, le Messe con la gente, con il Popolo di Dio? Ovviamente, quanto erano, anche, importanti per lui prima di essere eletto alla Cattedra di Pietro?
R. – Questo è proprio insito nel suo essere anzitutto sacerdote. Bergoglio ha sempre dato un’importanza predominante alla preparazione delle omelie, importanza che significa – come ha spiegato anche nella Evangelii gaudium – quel momento del tu per tu con la Parola, del lasciarsi illuminare da questa. Tutto il suo momento prima della Messa del mattino è dedicato a questo momento spirituale, come lui lo chiama. Ma perché? Perché, lui dice questo: che la Chiesa esiste per proclamare, per essere voce del suo Sposo. E questa Parola, oltre che con la voce, si proclama con la vita. Tant’è che dice anche che un predicatore che non si prepara è disonesto: parla di disonestà e che è un irresponsabile verso i doni che ha ricevuto! Quando l’ho sentito, in occasione dell’uscita dell’Esortazione apostolica, gli ho chiesto quali fossero le parti per lui importanti, oltre alla prima che è appunto quella dell’annuncio. Lui ha detto: ci sono questa e la parte finale, ma la parte importante è la parte centrale che ho voluto dedicare all’omelia.
D. – Dopo i dipendenti vaticani, ora anche i fedeli romani potranno partecipare alle Messe di Santa Marta. Si vede qui proprio in modo concreto quel binomio "vescovo e popolo" con cui Francesco si è presentato al mondo, il 13 marzo scorso …
R. – Certamente. E’ un’esigenza vitale per lui, la celebrazione eucaristica al mattino: questa ferialità, questa quotidianità, questa dimensione familiare... perché è la quotidianità della fede che aiuta la fede. Queste omelie traggono tutte ispirazione dalla lettura, si articolano alla luce dei passi della Scrittura, per aprirsi al cammino della Chiesa nella storia degli uomini, secondo l’intento che è stato anche quello del Concilio. In questo, lui sta attuando il Concilio. Lui ha iniziato con i suoi collaboratori, cioè con le persone che sono in Vaticano; ma lui è il Vescovo di Roma e quindi la Parola e quello che rappresenta la sua Messa quotidiana lo apre alla città di cui è vescovo. Proprio questa mattina ho ricevuto un dono che mi ha mandato: sono i romanzi di Bernanos, che peraltro ha citato nella Evangelii gaudium... Soprattutto in questo contesto mi sembra significativo. Infatti, Bernanos ha portato dentro la Chiesa, attraverso le più abbandonate parrocchie della campagna, il grido di milioni di anime che non sempre avrebbero avuto la possibilità di trovare una mano che le aiutasse, una parola che le affrancasse dal deserto in cui trascorrevano la loro esistenza. Io credo che questa apertura alle parrocchie e alle persone delle parrocchie di Roma significhi anche questo per Bergoglio.
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Caro Squinzi, è troppo comodo criticare le aziende pubbliche
Francesco Forte

E' nella terza età, essendo nato a Busto Arsizio nell’anno 29 del secolo scorso. Ha vissuto a Sondrio dall’età di 9 anni e ivi ha frequentato il ginnasio-liceo Piazzi. Suo padre, suo nonno e suo zio erano magistrati. Ma lui ha scelto, sin dalle medie, di fare l’economista. Nel 1947, perciò, vinto il concorso di alunno al Collegio Ghislieri di Pavia, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza e frequentò contemporaneamente la Facoltà di Scienze politiche e soprattutto l’Istituto di Finanza dell’Università. Nel 1951 si laurea con lode e menzione per la stampa con una tesi in scienza delle finanze. Nello stesso anno viene nominato Assistente ordinario nell’istituto di finanza pavese diretto dal professor Benvenuto Griziotti, maestro fra l’altro di Ezio Vanoni, di cui Forte diventa professore supplente all’Università statale di Milano dal 1955-56 al 1956-1957. Da questo anno è professore incaricato presso le Università di Milano e Urbino. E’ nel frattempo consulente di imprese come Eni e Ferrero e redattore capo dell’economia del nuovo giornale Il Giorno. Nel febbraio 1959 consegue la libera docenza in scienza delle finanze. Dal ‘59 al ‘60 è post-doctoral fellow del Thomas Jefferson Center del Dept. of economics dell’Università di Virginia. Nel 1960 è Associate professor of economics presso la stessa Università. Nel 1961 approda all’International Tax Center di Harvard e diviene full professor of Economics all’Università di Virgina su proposta di James Buchanan e Ronald Coase poi premio Nobel per l’economia. Nello stesso anno vince in Italia il concorso di cattedra in Scienza delle finanze e viene chiamato da Luigi Einaudi a succedergli presso le facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche dell’Università di Torino. Tra il 1962 e il 1964 è consulente dei ministri del Bilancio Ugo la Malfa e Antonio Giolitti e inizia a elaborare a livello politico la formula del liberal-socialismo, allora considerata strana, che peraltro deriva dal suo indirizzo di “economia sociale di mercato”, cui rimarrà costantemente fedele. Nel 1965 è visiting professor nell’Università di York in Inghilterra, due anni dopo Rockfeller research professor a Washington presso la Brookings Institution e nel 1970 Visiting professor presso l’Università di California. Dal 1966 al 1976 è membro della giunta esecutiva e poi vicepresidente dell’Eni, e fino al 1981 preside della Scuola di specializzazione E. Mattei dell’Eni. Nel 1983 diviene membro del Board dell’Università di Buckingam e nel 1986 la stessa Università gli conferisce la laurea Honoris causa. Dal 1979 al 1987, su designazione di Bettino Craxi, che ne apprezza la linea economica, è capolista alla Camera ed eletto nel collegio Como-Sondrio-Varese. Dall’87al '94, per altre due legislature, senatore del collegio di Sondrio In questo periodo è presidente della commissione Industria alla Camera, ministro delle Finanze (1982-1983), ministro delle Politiche comunitarie (1983-1985), sottosegretario delegato per gli interventi straordinari nel terzo mondo (1985-87), capo dello staff del rappresentante speciale del segretario delle Nazioni Unite per i problemi del debito estero dei PVS (1990-91), presidente della commissione Finanze e Tesoro del Senato (1992-94). Nel 1984 è chiamato a Roma alla cattedra di Politica economica e poi a quella di Scienza delle finanze nella Facoltà di economia dell’Università La Sapienza. Nel 1987 diviene presidente della European Public Choice Society e nel 1989 vicepresidente della Hume Society di Edimburgo. Dal 1987 è presidente onorario dell’International Istititute of Public Finance. Nel 1997 è visiting professor presso il Fondo monetario internazionale a Washington. Dal 2000 al 2004 è presidente prima del nuovo Corso di Laurea in Turismo e Risorse e poi di quello di Moda e Costume della Sapienza. Dal 2005 è professore emerito della facoltà di Economia della Sapienza e vi continua le sue ricerche scientifiche. Presidente dal 2004 del comitato scientifico per l’istituzione della facoltà di Economia dell’Università mediterranea di Reggio Calabria, vi ha creato il nuovo corso di laurea in Scienze economiche e vi insegna Scienza delle finanze e Analisi economica del diritto. E’ oramai autore o coautore di 51 volumi di opere scientifiche e di diverse centinaia di saggi economici in italiano e inglese in riviste italiane e internazionali. Ha scritto articoli sull’Espresso, Panorama, La stampa, Il Giornale, Italia Oggi, e ora su Libero. E’ autore dell’editoriale economico del Foglio dalla fondazione e grazie all’elettronica svolge, con impegno quasi religioso, questo compito quotidiano in qualunque parte di Italia o del resto del mondo si trovi. Scrive sul Foglio, di tanto in tanto, articoli firmati che, nel gergo dei foglianti, vengono denominati “i fortiani”.
Rifugiati: la politica che minimizza e basta
di Fabio Ghia
28 dicembre 2013POLITICA

La prima benedizione natalizia di Papa Francesco, messaggio di pace rivolto a tutti i poveri e diseredati del mondo, è stato anche un momento di preghiera e di riflessione per tutti coloro che patiscono le pene di una guerra, così come le vittime di Lampedusa e la tratta degli uomini. Definito dal Santo Padre “un delitto contro l’umanità”. Parole che, come sempre, colpiscono nel profondo e ci riportano alle immagini shock del Cie di Lampedusa, ma anche al conflitto in Siria, alla Repubblica Centrafricana, al Sud Sudan, alla Nigeria, alla Repubblica Democratica del Congo, al Corno d’Africa, all’Iraq. Tutti posti dove i conflitti e le lotte intestine continuano a generare sofferenza e a causare centinaia di migliaia, se non milioni di sfollati (Siria) destinati quasi certamente alla clandestinità per poi accedere allo status di Rifugiato. “Dona speranza e conforto ai profughi e ai rifugiati”, ha invocato il Papa, chiedendo “accoglienza per i migranti” in cerca di dignità. Ancora una volta, dunque, Papa Francesco è tornato sulle problematiche dell’immigrazione e lo ha fatto in un’occasione particolare: il Natale.
Il problema dell’immigrazione va dunque assumendo una dimensione sempre più catastrofica e nel Cie di Ponte Galeria le proteste contro le condizioni abitative e la durata del soggiorno degli immigrati sono durate per più di una settimana. Di fronte alle immagini dei clandestini con le labbra cucite, trasmesse a più riprese dalle varie tv, il Premier Letta martedì scorso, a similitudine di quanto aveva già annunciato dopo la tragedia di Lampedusa, ha promesso di rivedere l’intera legislazione, incluso il reato di clandestinità della legge Bossi-Fini. A differenza di quanto detto da Papa Bergoglio nella sua preghiera, stupisce come le problematiche degli immigrati in Italia vengono trattate solo quando scoppia “il caso”, mentre a nessuno viene in mente di inquadrare il tutto in quel più ampio contesto che ne ha originato la “migrazione”. Il Mediterraneo, da sempre coacervo di civiltà e di culture, è dunque divenuto il fulcro operativo della tratta degli essere umani, in particolare dalla sponda sud verso l’Europa, con l’Italia che funge da testa di ponte. Certo, è solo un Paese di passaggio.
Visto che nella triste graduatoria degli immigrati extracomunitari, l’Italia figura solo al terzo posto, dopo Francia e Germania, ma quasi allo stesso livello di Inghilterra e Spagna. Ben diversa però è la situazione relativa all’accoglienza. “Fa’ che i migranti in cerca di una vita dignitosa trovino accoglienza e aiuto!”: è sempre la voce del Papa. Accoglienza e solidarietà dovrebbero essere un tutt’uno a livello internazionale. Per contro, la maggior parte dei clandestini/rifugiati sono di provenienza da Paesi musulmani. Paesi che, ben rappresentati nel complesso della Lega Araba, hanno trovato un riferimento di rilievo, sia dal punto di vista etico-politico che finanziario, in altre nazioni di maggiore interesse strategico: gli Stati del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita e il Qatar. Malgrado ben due milioni di “sfollati” dalla Siria queste nazioni sembrano non voler contribuire minimamente ad un minimo di assistenza per i propri fratelli musulmani. Ecco, quindi, che si manifesta la necessità di portare in ambito internazionale l’apertura al “dialogo” sui flussi migratori anche ai ricchi Paesi arabi mediorientali.
Se questo è il quadro mediorientale, molte perplessità nascono anche per il riconoscimento dello status di “Rifugiato”. Ancora oggi, infatti, tale status è riconosciuto da ogni singolo Paese attraverso la rigida applicazione di protocolli internazionali delle Nazioni Unite (Unhcr), che però differiscono notevolmente in relazione alla nazione di accoglienza, al Paese di origine del richiedente e alla natura della richiesta. Per fare un esempio, i siriani sfollati (2,5 milioni!) sono attualmente accolti in campi profughi in Giordania, Iraq, Libano ecc., dove godono dello status di rifugiato. Dal momento in cui, però, lasciano la nazione che gli ha rilasciato tale status, diventano clandestini. Sono quindi costretti a entrare nelle maglie della delinquenza organizzata alla ricerca di un passaggio della “morte” per l’Italia. Giunti in Italia, vengono sottoposti nuovamente alle procedure di riconoscimento dello status di rifugiato. Nel particolare, applicando procedure che dalla stessa Ue sono giudicate tra le più restrittive. Sempre che non sia nel frattempo scattato il reato di “clandestinità” e la quasi usuale “galera cautelare”! Sulle “maglie della delinquenza organizzata”, infine, si apre un’ultima doverosa considerazione.
Esiste comunque un punto di raccordo comune: i campi di raccolta profughi/sfollati nelle varie aree del mondo, di massima originati (senza alcuna colpa specifica a riguardo!) dall’Unhcr. Da tutto questo emergono dunque alcune considerazioni a riguardo. La necessità di portare in ambito Nazioni Unite la problematica di revisione delle procedure per l’assegnazione dello status di rifugiato valido a livello internazionale. L’apertura a un maggior “dialogo interculturale”, coinvolgendo in primis i ricchi paesi del Golfo, con la firma di accordi internazionali per un’integrazione degli sforzi per combattere e annientare i canali del traffico di uomini e della clandestinità ancor più in generale. Il cambio di approccio nei confronti dell’emigrazione, che dovrà essere trattata come un fenomeno strutturale di lunga durata, con una strategia complessiva di lungo periodo, orientata alla progressiva attenuazione dei “pusher factors” nei principali Paesi originatori di flussi migratori.
In sintesi, le azioni maggiormente significative si dovrebbero concentrare su: revisione in ambito Onu dello status di rifugiato e delle procedure per la sua assegnazione; chiarimenti legislativi a livello europeo sull’immigrazione clandestina, legge europea per trattamento uniforme nei Paesi membri, con la conseguente revisione della Bossi-Fini (abolizione del “reato” di clandestinità, sostituito da procedure amministrative: rimpatrio/espulsione/affidamento), possibilmente sotto l’egida di una Authority Europea. Programma europeo d’intervento nei Paesi di transito dei rifugiati in cooperazione con i governi dei Paesi islamici e Onlus internazionali (Croce Rossa, Mezzaluna Rossa – Anfe – Caritas – Save the Children, ecc.), gestite a livello nazionale dalla Protezione civile e non dal ministero degli Interni come avviene tutt’ora.
Esausti di Napolitano e del “governicchio”
di Titta Sgromo
28 dicembre 2013POLITICA

Su tanti quotidiani si legge che da un sondaggio risulterebbe che un italiano su due sente aria di guerra civile. Io che i sondaggi non li leggo o meglio degli stessi non mi fido troppo, dico che la percentuale è bassa posto che se ascolto dieci persone come ho fatto stamane otto non dicono altro che sono stufi ed esausti di vivere nel Paese nel quale sono nati. Il popolo italiano è stufo delle istituzioni tutte. È stanco di Re Giorgio Napolitano che, violando la Costituzione sulla quale ha giurato, detta le regole del governare quando non si dedica alla vergognosa nomina dei senatori a vita (fra i quali spicca il nome di Mario Monti che in otto mesi è stato capace di sfasciare l’Italia) o quando riceve i dirigenti delle istituzioni ai quali parla della necessità dei sacrifici degli italiani per salvare il Paese. È stanco del governicchio Letta, che mentre illude con proclami vuoti, porta alla disperazione i cittadini che assistono ai sorrisi beffardi dei politici sempre più avidi di privilegi.
Bastava dare uno sguardo in questi ultimi due giorni al cortile del Quirinale e ai dintorni per notare un tale numero di auto blu da impedire la visione del Colle. È stanco del funzionamento della giurisdizione a causa non tanto dell’enorme numero dei processi pendenti, ma del comportamento defatigatorio dei magistrati, immuni da ogni responsabilità e carichi di tanti privilegi che il cittadino non conosce (per esempio mutui con tassi agevolati). Ma il problema più grande che non si riesce ad affrontare e men che mai a risolvere è rappresentato dalla classe politica attuale, il peggio che in tanti anni di vita democratica o pseudo tale ci sia mai capitata. Basta osservare ciò che avviene in Parlamento per rendersi conto della gravità del problema e non mi riferisco alle folkloristiche esibizioni dei parlamentari grillini o della Lega, quanto agli interventi in aula di quei politici che per smorzare i toni, o meglio per aumentarli d’intensità, richiamano la memoria invocando i nomi di Pertini, Berlinguer e Moro.
Ma non quelli di Almirante, Pella, Covelli, Malagodi, Andreotti o Fanfani, per rappresentare ovviamente il compromesso storico e quindi il disastro del debito pubblico causato dalla scellerata politica di quegli anni. A pronunciare quei nomi è stato il giovane catto-comunista Speranza (Pd), ovviamente puntando l’indice sulla differenza tra i politici di quegli anni e quelli attuali. Ma ha dimenticato di dire che quando in Parlamento prendevano la parola gli Almirante o i Fanfani dell’epoca, tutti tacevano e ascoltavano con ammirazione non solo per il sublime eloquio ma per gli alti contenuti degli interventi di quei politici. Ma Speranza è un catto-comunista, come lo è Letta e come si avviano ad essere Alfano, Lupi. la Lorenzin o Mauro, tutti pronti al tradimento pur di rimanere attaccati alle prestigiose poltrone capitate come una manna dal cielo, provocata da Berlusconi che viene brutalmente invitato a rientrare nei ranghi, pena ulteriori disagi e rovine di natura giudiziaria.
Enrico Letta si paragona al buon padre di famiglia che non fa eccessi e spropositi pur di salvarla, e invoca sempre Napolitano, di stretta appartenenza comunista, come il salvatore della Patria. Ma entrambi conoscono il valore di tale parola posto che nella loro vita non l’hanno mai pronunciata per paura di essere sia pure per sbaglio, assimilati ad un qualsiasi movimento neofascista e per timore di turbare i sonni dei comunisti che sono vissuti e vivono nel perenne odio di classe. Ma questi signori che vivono sempre e si alimentano dell’antifascismo viscerale facendo finta di rottamare “i vecchi”, si rendono conto di avere affamato un intero popolo, la cui ricchezza principale sta nel genio italico in tutte le sue espressioni e nella tradizione che qualsiasi altro popolo ci invidia? Penso proprio di no, perché altrimenti non farebbero dichiarazioni ufficiali che offendono gli italiani, che non hanno bisogno di Babbo Natale travestito da politico nostrano, tutt’altro che munifico, ma famelico.
Ogni buon padre di famiglia, quello vero, sa come travestirsi da Babbo Natale anche in periodi tristi come quello che viviamo, dove la Banca d’Italia consente agli istituti bancari di applicare interessi che raggiungono il 20% sugli sconfinamenti. Ma se tali interessi vengono applicati sui malcapitati correntisti che, per i motivi che sappiamo, sono costretti a sconfinare, non si commette il reato di usura, tutto è in regola, mentre le banche tutte, a partire da Unicredit e Banca Intesa, che ricevono dalla Bce montagne di denaro allo 0,25%, gongolano. No, caro Letta, non abbiamo bisogno di te per amministrare la cosa pubblica, così come non abbiamo bisogno di Saccomanni, ex direttore generale di Bankitalia, per tenere i conti in ordine, così come non abbiamo bisogno di Napolitano - un comunista che brindava insieme a Togliatti quando i carri armati sovietici invadevano l’Ungheria - per salvare la Patria, anche perché questa parola preferisce ignorarla.
Muore la gente perbene, il governo è indifferente
di Ruggiero Capone
28 dicembre 2013POLITICA

La miseria nella quale è scivolata la classe media italiana è, purtroppo, aggravata dai residui di un passato status sociale. A quest’ultimo venivano abituati tutti coloro che non avevano conosciuto la guerra nemmeno da bambini. Una grande fetta di popolazione che, per evidente decoro borghese, si sforza di mantenere l’apparenza orgogliosa e distinta. In questo modo di porsi è racchiusa l’eutanasia della famiglia media italiana, fortemente preclusa agli aiuti di una eventuale solidarietà collettiva: la classe media è così schiacciata, imprigionata nella sua misera e formale prigionia morale. Salvarsi toccherà solo a coloro che si rimboccheranno le maniche, accettando lavori umili e manuali, dimenticando titoli di studio e pregresse soddisfazioni intellettuali.
Nell’Italia che ci si sta disvelando conterà di più saper innalzare un muro, rasare l’intonaco, saldare lamiere di ferro e pezzi d’ottone, piuttosto che ostentare buoni curricula. Il curriculum non serve più e se lo presenti in aziende o uffici vari non fai altro che rallegrare la giornata di chi lo riceve: “Ma dove vive questo scemo? Manda ancora in giro il curriculum? Facciamoci quattro risate, vediamo dove ha perso il suo tempo in studi e formazione”. Lo Stato s’appresta a presentare già dalla prossima settimana il nuovo conto alle famiglie italiane che, tra nuove tasse su rifiuti e casa, si troveranno per il 70% a non avere di che fare la spesa alimentare già dal 18 gennaio. Anche la bolletta energetica di luce e gas subirà forti rincari: il “blocca bollette” del governo ha partorito l’effetto contrario, una sfilza di conguagli su luce, gas e acqua.
Non dimentichiamo che il rincaro della benzina non può, e per logica conseguenza, che trascinare con sé l’impennata di tutta la bolletta energetica. Eppure c’è ancora chi cerca giustificazioni, sostenendo in vari pulpiti televisivi che il mercato starebbe selezionando le migliori imprese. Boiata degna di giornalisti di regime e burocrati. A conti fatti l’ultima decimazione di botteghe artigiane e commerciali starebbe per consumarsi in questi giorni, nei capoluoghi di provincia sarebbero pronti a dimezzarsi ulteriormente i negozi. Non ce la fanno più, non hanno venduto nulla nemmeno sotto Natale, così chiudono partita Iva ed iscrizione alla Camera di Commercio, e prima che incominci il 2014. Nei pubblici uffici c’è ressa a dichiarare la chiusura d’attività prima che inizi fiscalmente il nuovo anno, ma dal governo sarebbe anche partito l’ordine di non divulgare questa notizia per scongiurare il panico tra i consumatori.
E cosa diremo a chi troverà chiusa la merceria sotto casa, che i titolari sono stati colti da influenza aviaria? E quando la gente s’accorgerà che la serrata interessa le botteghe di interi quartieri? Forse il governo tirerà in ballo la salute, asserendo che è in atto un’epidemia? Eppure sarebbe tanto semplice spiegare alla gente che, il “partito della spesa pubblica” ha imposto all’Esecutivo che venisse spremuto l’uomo di strada, per evitare l’impoverimento della classe burocratica. “Facciamo a metà?” avrebbero tentato Letta ed Alfano, ma gli alti dignitari di Stato (direttori generali, magistrati e funzionari) avrebbero sentenziato “che a pagare siano le moltitudini in difficoltà”. Del resto queste ultime sono davvero tanto restie ad ogni forma di ribellione, e non da oggi. In una pellicola degli anni Settanta si poteva scorgere un prelato intento a spiegare la storia ad Ugo Tognazzi nei panni di generale dell’esercito pontificio, preoccupato per l’arrivo di Garibaldi: “Ma non lo conosci il popolo?
Quello di Roma è rivoluzionario per strada, dove si sciacqua la bocca contro il potere: ma, se poco poco gli riesce di infilarsi nel salotto aristocratico, allora ti diventa cesaropapista e conservatore”. Sante parole, non a caso quel furbacchione del forcone Mariano Ferro s’è rivolto proprio al Papa che, di rimando, ha risposto da gesuita vestito da Francesco: “La ribellione non risolve nulla, sono vicino a chi ha fede e soffre la povertà, certo che in altra vita verrà ricompensato”. Il popolo è fatto così, si sa che è buono di cuore: basta che il potere dia una pacca sulle spalle e tutto rientra. È il “come è buono lei!” di Fantozzi e Fracchia: è l’autocoscienza di profonda inferiorità che ammorbidisce ogni repressione, ogni punizione. E al popolo piace, e anche tanto, che la presa per i fondelli caschi da altezze celestiali. Così il governo ha pensato bene di dire ai somari tutti che “la benzina aumenta ma non verranno ritoccate le bollette di luce e gas”.
La bubbola è davvero grossa, e lo sanno anche i bambini che il prezzo della benzina trascina con sé ogni bolletta energetica e decreta l’aumento generale dei prezzi. Continuiamo a farci del male, a credere ad ogni boiata istituzionale. E pensare che, grazie alle tante tasse sulla casa, in questo 2014 solo il 5% dei proprietari di casa potrà spendere in manutenzioni degli immobili. Significa che il patrimonio immobiliare italiano è a rischio depauperamento, con conseguenti crolli di cornicioni, intonachi, solai, balconi. Uno stato magnanimo e intelligente avrebbe lasciato più quattrini in tasca ai proprietari di casa, permettendo loro di pagare imprese e operai per manutenzioni e opere di consolidamento. Ma finiamola qui, un popolo di pecoroni ha partorito questo Stato imbecille.
Discorsi di fine anno, evviva il “futurismo”!
di Vito Massimano
28 dicembre 2013POLITICA

Anche io voglio fare un discorso di fine anno. Mi sono montato la testa. Non sarà “aulico” come quello del nostro Presidente della Repubblica, ne sono sicuro. Ma sono altrettanto sicuro che non avrà verbi coniugati al futuro, come quello del nostro Presidente del Consiglio. Allora facciamo che sia un discorso “col senno di poi”. Banale? Non credo. E vi spiego il perché. Perché come diceva Enrico Ruggeri “il futuro è un’incognita”. E quindi sull’incognita ognuno può dire la sua cretinata, la sua supercazzola se volete, ma di sicuro una cosa che non ha nessuna intenzione di fare, né può farla. “Faremo, diremo, cresceremo”: sì, ok, ma nel frattempo cosa facciamo? Non è dato saperlo. Allora, dicevo: vediamo cosa “abbiamo fatto”. Abbiamo innanzitutto capito una grande verità, dalla quale sarebbe opportuno trarre le dovute conclusioni e dalla quale ripartire. Abbiamo capito che le elezioni oltre ad essere costose sono anche inutili.
Abbiamo riempito pagine di giornali parlando di ventennio berlusconiano, di prodismo, di correnti politiche confliggenti. Siamo sopravvissuti a lustri di estenuanti e sanguinose campagne elettorali per poi capire che sarebbe stato meglio risparmiarli quei soldi. Perché in realtà l’Italia è stata negli ultimi trent’anni un enorme governo Letta, che vedeva l’alternanza ora di Gianni ora di Enrico. Una sfilza interminabile di governi nati non dalle urne ma nei salotti, negli studi di qualche cardinale e nei locali di Confindustria, oltre che nelle solite riunioni conviviali di Aspen, Trilateral e via dicendo. Da qualche decennio poi è di moda chiedere apertamente il placet di euro-burocrati, lobby massoniche e presidenti “Eurostar” che addirittura alzano le loro euro-terga dalla loro euro-poltrona per venire addirittura in Italia a duettare con i loro “euro-dipendenti” italiani. Non politici italiani, ma loro euro-referenti, garanti dei loro interessi nella gestione della Penisola. Quindi perché sprecare risorse per indire elezioni?
Chiediamolo direttamente ai Letta. È molto più economico. Anche perché comunque loro ci devono andare a parlare con queste persone con le quali hanno scelto di interfacciarsi, non è che sia un aggravio di spesa nemmeno per loro. Abbiamo capito che in Italia si scambia la nobile arte della mediazione per la penosa arte dell’inciucio. La mediazione è un’arte nobile, ma prima di essere nobile è un’arte etica. Etica perché è recintata da confini che, fatta eccezione per la Ragion di Stato (non personale, di Stato), devono essere invalicabili se non si vuole scadere nell’immoralità. Perché è questa la chiave di lettura della politica italiana ed è questa la sua colpa: aver aggiunto soggetti estranei (quando non addirittura opachi) nella catena decisionale dell’autodeterminazione delle nazioni, esercitando quindi un processo di mediazione con soggetti non titolati e quindi esercitando in ultima analisi una pratica immorale. Ecco il vero taglio alla spesa pubblica, senza bisogno di economisti “di grido”, perché la verità è sotto i nostri occhi e noi siamo soliti cercarla lontano dove non c’è e non c’è mai stata. Se i governi vengono decisi in luoghi “altri” da quelli istituzionali, allora delle due l’una.
O ci si riappropria della sovranità popolare o in caso contrario bisogna tagliare dei costi che oltre ad essere esorbitanti abbiamo realizzato anche essere inutili. O i palazzi del potere esercitano il potere liberi da condizionamenti che non siano strettamente legati al loro mandato e agli obblighi verso gli elettori dei quali devono rappresentarne gli interessi, oppure sarà meglio che ci siano le primarie per eleggere il Gran Maestro, il Reggente delle lobby bancarie, dei gruppi occulti (ma nemmeno più tanto). Si comunicano gli esiti alla “plebe” che così non si rompe nemmeno le scatole ad alzarsi e fare la fila in cabina elettorale e va bene così. Dobbiamo essere certi che in Italia il potere sia esercitato dalle istituzioni. In realtà per ora abbiamo la certezza che le istituzioni siano state occupate da “referenti”, da “camerieri”, da “emissari”: “I politici sono delle marionette nelle mani dei banchieri” (F. Cossiga “Fotti il Potere-Aliberti). Dalla comprensione dell’inutilità delle elezioni e della causa oggettiva di questa inutilità, bisogna trarre anche la conclusione che “lo spontaneismo” non esiste: esiste solo ed unicamente lo “spintaneismo”. Non esiste nel mondo nulla di spontaneo, dal Solidarnosc alle Primavere Arabe, dalle Femen a Greenpeace. E sapete perché? Sempre per lo stesso identico motivo. Tutto ha bisogno di soldi, anche lo spontaneismo.
E chi mette i soldi orienta lo spontaneismo, che di spontaneo ha quindi solo il nome. Ricordiamocene quando in Italia si parla di “moti popolari”, di grillismi e di movimentismo in genere. Parliamo al “presente”: viviamo in un Paese dove la politica non esiste, e non esistendo non può fare nemmeno gli interessi nazionali ma solo quelli dei loro dante causa. E i loro dante causa non sono certo gli elettori ma le lobby che li selezionano; affidarsi allo spontaneismo è di una tenerezza disarmante: è come affermare il primato del burattino sul burattinaio; non esistendo la politica non possiamo nemmeno augurarci di ristabilire il sano primato della politica sulla magistratura, della quale quest’ultima ha preso lo spazio lasciato vacante. Non sussistono allo stato attuale le condizioni in base alle quali un politico possa parlare al futuro. E se un politico, in queste condizioni, parla al futuro ha solo due motivi: o perché in fondo gli sta bene così perché è così che è diventato “potente”, oppure perché è sicuro di non avere un futuro “prossimo” in quanto dovrà lasciare il posto ad un altro “futurista” prodigo di “futurismi” che a sua volta lascerà il posto ad un altro futurista prodigo di altrettanti futurismi. Credo che Marinetti meriti delle scuse formali.
Riforme impossibili e governo incapace
di Arturo Diaconale
28 dicembre 2013EDITORIALI

Ma può un governo che non sa evitare lo stravolgimento di un decreto da parte dell’assalto delle lobby e degli interessi particolari guidare il processo di riforme che dovrebbe portare addirittura ad un epocale cambiamento della Carta Costituzionale? Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cioè l’artefice dell’attuale equilibrio politico ed il personaggio che dall’epoca del governo Monti ad oggi rappresenta il perno su cui regge ciò che resta del sistema della Seconda Repubblica, dovrebbe essere il primo a porsi questo interrogativo. Perché è lui che ha assegnato i compiti all’Esecutivo dei tecnici guidati da Mario Monti e all’Esecutivo di Enrico Letta indicando che il primo doveva perseguire il risanamento ed il secondo realizzare le indispensabili riforme istituzionali.
Ed è proprio lui che non può non prendere atto non solo del fallimento dell’operazione Monti, ma anche dell’impossibilità del governo Letta di portare a compimento l’impresa a cui era stato assegnato. La vicenda del “Salva-Roma”, decreto lasciato decadere proprio su sollecitazione del Quirinale, dimostra in maniera inequivocabile che l’Esecutivo non è in grado di compiere alcunché al di fuori di un piccolo cabotaggio realizzato, oltretutto, in maniera contraddittoria, faticosa e sostanzialmente inefficace. Il governo, in sostanza, può aumentare le tasse per la pausa caffè, può spostare il carico delle imposte sulle casa da una parte all’altra caricandolo lungo la strada di qualche altro aumento, può fare l’elemosina alle fasce più basse dei pensionati per aumentare il taglieggiamento dello Stato ai danni della stragrande maggioranza dei cittadini che percepiscono il loro legittimo trattamento di quiescenza.
Ma oltre queste operazioni di piccolo imbroglio ragionieristico non sa e non può andare. Non solo perché è carico di gente di non eccelso livello. Ma soprattutto perché non ha alle spalle una maggioranza solida, compatta e decisa a svolgere la propria funzione. La favola secondo cui la fine delle larghe intese ed il passaggio alla piccola intesa avrebbe comportato una maggiore coesione della coalizione si è rivelata un’autentica bufala. I partiti della maggioranza sono impegnati solo a salvare se stessi e il proprio personale futuro piuttosto che salvare il Paese dalla crisi. E in queste condizioni, comprovate dagli avvenimenti che si realizzano a ritmo ormai giornaliero, il capo dello Stato, cioè l’uomo che si è assunto la responsabilità di imporre questo quadro politico in nome della stabilità di fronte all’emergenza, non può rimanere indifferente di fronte al fallimento dell’esperimento politico da lui fortemente voluto.
Se il 2014 dovesse essere la semplice continuazione del 2013 senza portare ad alcun tipo di riforma sarebbe una tragedia. Perché a fallire non sarebbe solo il governo della piccola intesa, ma anche quella generazione dei quarantenni, Matteo Renzi in testa seguito a ruota da Enrico Letta e Angelino Alfano, che viene considerata come l’ultima riserva dell’attuale sistema politico. Un sistema, però, che è talmente deteriorato e così profondamente diverso da quello originario della democrazia repubblicana, da essere incentrato solo ed esclusivamente sul ruolo anomalo e debordante del Presidente della Repubblica. Ma quale futuro può avere un Paese che ha un governo incapace e paralizzato e la “guida suprema”, come nei regimi autoritari, di un uomo solo e per di più novantenne?
Centrafrica, il Natale è più forte della guerra
di Federico Trinchero*28-12-2013
Fonte: la nuovabq.it
Carissimi,
Qui al Carmel di Bangui, dove mi trovo da soli quattro mesi, è stato davvero un Avvento speciale. Dal 5 dicembre il nostro convento si è trasformato in un campo profughi e i nostri graditi ospiti sembrano non avere alcuna intenzione di andarsene. Nei quartieri la tensione e la paura sono ancora alte. Meglio dormire qui da noi, anche se per terra.
Le giornate si susseguono una dopo l’altra tra bambini che nascono e che purtroppo muoiono, malati e feriti da curare, distribuzione di cibo, coperte, sapone, pulizia del campo e tanti, tantissimi altri imprevisti. I nostri profughi sono così a loro agio che a volte mi domando se non siamo noi frati i veri profughi e che il nostro è un convento finito per caso in mezzo a loro.
Ogni mattino ci alziamo e sappiamo, più o meno esattamente, cosa dobbiamo fare e che quello che dobbiamo fare è la cosa giusta. Inutile negare che la stanchezza, spesso più psicologica che fisica, cominci a farsi sentire. Ma comunque andiamo avanti anche perché non è possibile fare altrimenti. E ogni tanto troviamo addirittura il tempo per fare qualcosa - senza troppi sensi di colpa - che non riguardi i nostri profughi.
Purtroppo venerdì scorso ci sono stati degli scontri molto violenti in città, in un quartiere piuttosto vicino al nostro convento. Questo ha provocato un improvviso aumento dei nostri profughi. Come ogni giorno, verso le sette, ci avviamo verso il luogo all’aperto, dove celebriamo la Messa. Lungo il tragitto sentiamo diversi spari, alcuni molto forti e vicini. Mi domando se non sia più opportuno non iniziare la celebrazione per evitare il panico. Ma il canto d’ingresso è ormai iniziato. Gli spari si susseguono senza sosta. Verrà qualcuno a farci del male? Celebro la Messa più lunga della mia vita. Ammiro tuttavia la compostezza dell’assemblea. Quando gli spari sono più forti, c’è come un sussulto e un gemito collettivo; ma i nostri fedeli non si schiodano da dove sono. L’Eucaristia che celebriamo è la nostra migliore protezione, uno scudo impenetrabile, davvero la nostra unica salvezza. La celebrazione continua, ma un fiume di gente che corre impaurita, con poche masserizie sulla testa, raggiunge il nostro sito e ci circonda. Che impressione e che sfida questa Eucaristia inerme nel pieno vortice della guerra!
La celebrazione termina e, in pochi istanti, ci accorgiamo che i nostri ospiti da 2.500 sono diventai circa 10.000. Inizialmente siamo un po’ spaventati e ci domandiamo come potremo gestire una tale massa di gente. Ma, superati questo iniziale smarrimento e sensazione di impotenza, comprendiamo che tutto quello che abbiamo vissuto finora non è stato che un allenamento per l’avventura che ci sta davanti. Ripensiamo al miracolo della moltiplicazione dei pani, contiamo i nostri pani e i nostri pesci, ci rimbocchiamo le maniche e ripartiamo. Se ce l’ha fatta Gesù, ce la faremo anche noi. E vi confesso che, per certi aspetti, un numero così grande è quasi più gestibile. La gente stessa comprende che possiamo fare ben poco e quindi si organizza autonomamente o, meglio ancora, si arrangia come può. Noi ci ‘limitiamo’ ad affrontare le urgenze, a seguire i casi più gravi e a gestire gli aiuti dei vari organismi.
La distribuzione del cibo diventa però un po’ problematica. Testardo e perfezionista come sono, anche in tempo di guerra, insisto per mettere in fila circa 2000 donne. Cosa veramente impossibile, soprattutto se le donne in questione sono affamate. Sono costretto quindi a gettare la spugna e a convertirmi a una metodologia più africana. Il nostro campo viene diviso in 11 zone. Ogni zona ha una sorta di capo villaggio che, aiutato da due consiglieri, si occupa della distribuzione nel proprio settore. Il nuovo sistema sembra funzionare e, in breve tempo, la tonnellata di mais che stazionava nel chiostro viene distribuita in parti più o meno eque e senza troppi intoppi e discussioni.
Il numero dei nostri profughi aumenta anche a causa delle frequenti nascite. Con mia grande gioia sono ridiventato papà non so quante volte. Ho sinceramente perso il conto: Thérèse, Elisabeth, Federico (il papà, quello vero, ha insistito troppo!), Carmel e Carmeline (due gemelli), Joseph (in onore al mio papà) e altri ancora. Quando è possibile, cerchiamo di chiamare l’ambulanza affinché il parto avvenga in ospedale. Ma, come potete ben immaginare, a causa delle strade e della situazione di generale insicurezza, le ambulanze possono impiegare molte ore prima di arrivare fin qui. E le mamme africane sono decisamente più veloci e capaci di gestire il parto senza troppe difficoltà. Ormai il refettorio è sala parto e il capitolo funge da maternità. Purtroppo ci sono stati altri due bambini (gemelli) che sono morti. La mamma, che neppure sapeva di portare in grembo due creature, ha avuto una gravidanza anticipata a causa di una forte malaria. Subito è morta la bambina. I suoi occhi non hanno fatto in tempo ad aprirsi per vedere la tragedia della guerra. Pesava solo 1 kg: non avevo mai visto un essere umano così piccolo. Il fratellino, un po’ più robusto, è sopravvissuto altri due giorni e poi se ne andato anche lui.
La Vita è comunque più forte della morte e della guerra. E trovo poi significativo che la Vita ci abbia visitato nei luoghi più importanti della nostra comunità: la chiesa e il refettorio. Sono i luoghi dove preghiamo e dove mangiamo, dove ci incontriamo più volte durante la giornata, dove la nostra vita di comunione con Dio e con i fratelli è ogni giorno rinnovata e plasmata. Tutto questo mi sembra quasi una conferma della bellezza della nostra vocazione.
Sabato scorso il nostro vescovo, dopo aver saputo che il nostro campo profughi ha accolto altra gente, è venuto ancora una volta a farci una visita. Ci informa che anche il seminario maggiore vive una situazione analoga alla nostra. Questa volta il nostro vescovo trova il tempo di bere un bicchier d’acqua e di chiacchierare un po’ e di spiegarci cosa sta avvenendo in città. Ci promette di venire - appena può - a celebrare la Messa qui da noi e di portarci ancora un po’ di riso. Sono sicuro che manterrà entrambe le promesse.
Nel frattempo è arrivato il Natale. Quasi di nascosto i miei confratelli hanno trovato il tempo - e direi anche il coraggio - di mettere qualche addobbo e di allestire un piccolo presepe. Ma fare il presepe forse non era neppure necessario. In realtà il presepe, quest’anno, più che farlo, lo siamo diventati, improvvisamente e con un po’ di anticipo, il 5 dicembre. E il nostro presepe si è sempre più ingrandito con l’arrivo di altre migliaia di statuine e la nascita di tanti Gesù Bambini. Del resto, anche Maria e Giuseppe non erano, in quel di Betlemme, esattamente a casa loro: erano anche loro po’ profughi. E il parto avvenne in condizioni piuttosto precarie, come per le nostre mamme qui al Carmel. Se un tempo c’erano Cesare Augusto ed Erode, oggi i sovrani di turno portano il nome di François Hollande et Djotodia. La storia sembra quasi non cambiare, ma il miracolo di quella nascita non cessa di meravigliarci e di rallegrarci.
La Messa di mezzanotte l’abbiamo celebrata alle tre del pomeriggio per terminare prima del buio e del coprifuoco. Durante la celebrazione sentiamo degli spari in lontananza, ma i nostri fedeli cantano più forte della guerra. Sembra quasi una contraddizione dire a questa gente "la pace sia con voi". Ma forse, più che una contraddizione, la preghiera, la fede, la gioia di essere cristiani sono per tutti l’unica vera salvezza.
Dopo i Vespri ci regaliamo finalmente qualche minuto tutto e solo per noi. Abbiamo veramente tanta nostalgia della nostra fraternità, della nostra intimità e del nostro silenzio. La tradizione carmelitana vuole che questo momento di auguri natalizi avvenga nella sala del Capitolo. Ma quest’anno non è possibile. Restiamo nella cappellina. Ci scambiamo gli auguri - sperando che un Natale così unico sia veramente unico - e qualche piccolo regalo recuperato dal priore in tempo di pace. Come sono contento dei miei undici confratelli! Permettetemi ancora una volta di ringraziarli perché sono stati con me gli spettatori e gli attori del miracolo che ha trasformato il nostro convento in un campo profughi. Vorrei ringraziarli per quando li vedo arrivare trafelati alla preghiera comune. Vorrei ringraziarli per il lavoro che fanno, per il lavoro che vedo e per quello che non vedo e che trovo già fatto non so neppure da chi. Terminiamo mangiando qualche biscotto al mais preparato da padre Matteo. Poi, danzando e cantando con campanelli e tam-tam, portiamo la statua di Gesù Bambino nella sala del Capitolo dove, stupiti, ci accolgono i nostri bambini con le loro mamme. Poi, sempre cantando, ci rechiamo in refettorio (sempre profugo nel corridoio delle celle) che, nel frattempo, i nostri aspiranti hanno riempito di fiori.
E grazie, ancora una volta, anche a voi per il vostro sostegno davvero cordiale e commuovente. Un grazie particolare alle nostre consorelle di clausura. Ci hanno accompagnato in ogni istante con un’amicizia e una preghiera davvero speciali. È come se fossero venute a darci una mano.
Sono sicuro che saremo nei vostri pensieri e nelle vostre preghiere in questi giorni di festa.
Finché il Signore ce ne darà la forza, andremo avanti. Nessuno di noi sa ancora quando verrà il momento di smontare questo presepe in cui siamo precipitati. Quando scoppierà la pace questa gente potrà finalmente raggiungere la propria abitazione e condurre una vita normale. E noi ritorneremo a fare i frati a tempo pieno.
Buon Natale! E che il Signore doni presto la pace al Centrafrica!
* Missionario carmelitano a Bangui (Centrafrica)
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