giovedì 9 gennaio 2014

La fede non è un vaccino!


Autore: Oliosi, Don Gino Curatore: Mangiarotti, Don Gabriele
Fonte: CulturaCattolica.it
mercoledì 8 gennaio 2014

I Magi, saggi compagni della strada perenne per ogni uomo nella ricerca della verità, ci indicano lo sguardo della ragione e delle Scritture per seguire i grandi desideri del nostro cuore, oscurato dall’inganno, dalla sirena, dalla mondanità del Serpente antico, facendoci accontentare di una vita mediocre e ci spingono a lasciarci sempre affascinare da ciò che è buono, vero, bello… da Dio che possiede un volto umano, che ci ha amati sino alla fine, ogni singolo e l’umanità nel suo insieme e su questo cammino scorgere le utili luci sorte lungo la strada della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiutare a trovare la via, la speranza verso il futuro. Insistere sui comportamenti morali perenni in chi vive entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso, è somministrare, soprattutto ai ragazzi e ai giovani, un vaccino contro la fede e non la fede fondamento di tutto
“Lumen requirunt lumine”. Questa suggestiva espressione di un inno liturgico dell’Epifania si riferisce all’esperienza dei Magi: seguendo una luce essi cercano la Luce. La stella apparsa in cielo accende nella loro mente e nel loro cuore una luce che li muove alla ricerca della grande Luce di Cristo. I Magi seguono fedelmente quella luce che li pervade interiormente, e incontrano il Signore.
In questo percorso dei Magi d’Oriente è simboleggiato il destino di ogni uomo: la nostra vita è un camminare, illuminati dalle luci che rischiarano la strada, per trovare la pienezza della verità e dell’amore, che noi cristiani riconosciamo in Gesù, Luce del mondo. E ogni uomo, come i Magi, ha a disposizione due grandi “libri” da cui trarre i segni per orientarsi nel pellegrinaggio: il libro della creazione e il libro delle Sacre Scritture. L’importante è essere attenti, vigilare, ascoltare Dio che ci parla, sempre ci parla. Come dice il Salmo, riferendosi alla Legge del Signore: “Lampada per i miei passi la tua parola, / luce sul mio cammino” (Sal/ 119, 105). Specialmente ascoltare il Vangelo, leggerlo, meditarlo e farlo nostro nutrimento spirituale ci consente di incontrare Gesù vivo, di fare esperienza di Lui e del suo amore.
La prima lettura fa risuonare, per bocca del profeta Isaia, l’appello di Dio a Gerusalemme: “Alzati, rivesti di luce” (60,1). Gerusalemme è chiamata ad essere la città della luce, che riflette sul mondo la luce di Dio e aiuta gli uomini a camminare nelle sue vie. Questa è la vocazione e la missione del Popolo di Dio nel mondo. Ma Gerusalemme può venire meno a questa chiamata del Signore. Ci dice il Vangelo che i Magi, quando giunsero a Gerusalemme, persero per un po’ la vista della stella. Non la vedevano più. In particolare, la sua luce è assente nel palazzo del re Erode: quella dimora è tenebrosa, vi regnano il buio, la diffidenza, la paura, l’invidia. Erode, infatti, si mostra sospettoso e preoccupato per la nascita di un fragile Bambino che egli sente come un rivale. In realtà Gesù non è venuto ad abbattere lui, misero fantoccio, ma il Principe di questo mondo! Tuttavia il re e i suoi consiglieri sentono scricchiolare le impalcature del loro potere, temano che vengano capovolte le regole del gioco, smascherate le apparenze. Tutto un mondo edificato sul dominio, sul successo, sull’avere, sulla corruzione è messo in crisi da un Bambino! Ed Erode arriva fino ad uccidere i bambini. “Tu uccidi i bambini nella carne perché la paura ti uccide nel cuore” – scrive san Quodvultdeus (Disc. 2 sul Simbolo: PL 40, 655). E’ così: aveva paura, e per questa paura è impazzito.
I Magi seppero superare quel pericoloso momento di oscurità presso Erode, perché credettero alle Scritture, alla parola dei profeti che indicava in Betlemme il luogo della nascita del Messia. Così sfuggirono al torpore della notte del mondo, ripresero la strada verso Betlemme e là videro nuovamente la stella, e il vangelo dice che provarono “una gioia grandissima” (Mt 2,10). Quella stella che non si vedeva nel buio della mondanità di quel palazzo.
Un aspetto della luce che ci guida nel cammino della fede è anche la santa “furbizia”. E’ anche una virtù questa, la santa “furbizia”. Si tratta di quella scaltrezza spirituale che ci consente di riconoscere i pericoli ed evitarli. I Magi seppero usare questa luce di “furbizia” quando, sulla via del ritorno, decisero di non passare dal palazzo tenebroso di Erode, ma di percorrere un’altra strada. Questi saggi venuti da Oriente ci insegnano come non cadere nelle insidie delle tenebre e come difenderci dall’oscurità che cerca di avvolgere la nostra vita. Loro, con questa santa “furbizia” hanno custodito la fede. E anche noi dobbiamo custodire la fede. Custodirla da quel buio. Ma, anche tante volte, un buio travestito di luce! Perché il demonio, dice san Paolo, si veste da angelo di luce, alcune volte. E qui è necessaria la santa “furbizia”, per custodire la fede, custodirla dai canti delle Sirene, che ti dicono: “Guarda, oggi dobbiamo fare questo, quello…” Ma la fede è una grazia, è un dono. A noi tocca custodirla con questa santa “furbizia”, con la preghiera, con l’amore, con la carità. Occorre accogliere nel nostro cuore la luce di Dio e, nello stesso tempo, coltivare quella furbizia spirituale che sa coniugare semplicità ed astuzia, come chiede Gesù ai discepoli: “Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Mt 10,16).
Nella festa dell’Epifania, in cui ricordiamo la manifestazione di Gesù all’umanità nel volto di un Bambino, sentiamo accanto a noi i Magi, come saggi compagni di strada. Il loro esempio ci aiuta ad alzare lo sguardo verso la stella e a seguire i grandi desideri del nostro cuore. Ci insegnano a non accontentarci di una vita mediocre, del “piccolo cabotaggio”, ma a lasciarci sempre affascinare da ciò che è buono, vero, bello…da Dio, che tutto questo lo è in modo sempre più grande! E ci insegnano a non lasciarci ingannare dalle apparenze, da ciò che per il mondo è grande, apparente, potente. Non bisogna fermarsi lì. E’ necessario custodire la fede. In questo tempo è tanto importante questo: custodire la fede. Bisogna andare oltre, oltre il buio, oltre il,fascino delle Sirene, oltre la mondanità, oltre tante modernità che oggi ci sono, andare verso Betlemme, là dove, nella semplicità di una casa di periferia, tra una mamma e un papà pieni di amore e di fede, risplende il Sole sorto dall’alto, il re dell’universo. Sull’esempio dei Magi, con le nostre piccole luci, cerchiamo la Luce e custodiamo la fede. Così Sia” [Papa Francesco, Omelia dell’Epifania, 6 gennaio 2014].

Nella nuova ondata di illuminismo e di laicismo, in quella cultura che predomina in Occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita in cui l’etica viene ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso come evangelizzare, come non essere attenti a non somministrare a ragazzi e giovani che vivono situazioni di disagio in famiglia un vaccino contro la fede? La sfida è grande perché questo tipo di cultura, oggi egemone, rappresenta un taglio radicale e profondo non solo con il cristianesimo ma più in generale con le tradizioni religiose e morali dell’umanità. E’ una cultura contrassegnata da una profonda carenza, ma anche da un grande e inutilmente nascosto bisogno di speranza. Senza legittimare nulla contro i contenuti di fede e di morale, lasciando spazio a chi li richiama continuamente, chi, come successore di Pietro deve confermare e promuovere la fede, pastoralmente deve puntare all’essenziale cioè mantenere desta la sensibilità dei Magi cioè un cammino di ricerca della verità; invitare sempre tutti di nuovo a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino aiutare a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro.
Papa Francesco, richiamando l’essenziale, si rifà spesso, con testimonianze di amore, alla Lettera agli Efesini, 1, 4-5. In Cristo il Padre che non guarda quante volte cadiamo, ma quante volte, con la sua grazia ci rialziamo; che ci ama non perché siamo buoni ma per farci diventare suoi amici “ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo”. Siamo condotti da queste divine parole all’origine del nostro esserci, al da dove veniamo: alla sua radice eterna. “Ci ha scelti”: ogni uomo comunque ridotto, ognuno di noi è stato pensato e voluto fra tante possibili persone umane. Lo sguardo del Padre si è posato su di te, a preferenza di tanti altri: sei stato scelto nel tuo e altrui essere dono del Donatore divino cioè sei persona, libera e non puoi essere trattato come ogni altro animale. Quando è accaduto questo? “…prima della creazione del mondo”: il mondo, questo universo immenso entro cui ti senti come un granello di polvere, non esisteva ancora e il Padre ti ha pensato e voluto liberamente, cioè amato, ha scelto te. Se dunque esisti, non è per caso, senza una ragione. Ma ci ha scelti, pensati e voluti in Cristo. Cioè: quando il Padre ha pensato e voluto il Cristo, il Figlio di Dio che possiede un volto umano rivelando contemporaneamente chi è Dio e chi è ogni uomo, ha pensato e voluto anche ciascuno di noi. Con lo stesso atto di pensiero e colla stessa decisione di volontà con cui ha pensato e voluto l’Incarnazione, ha pensato e voluto ciascuno di noi predestinandoci ad essere suoi figli adottivi e quindi fratelli Ecco perché ogni persona umana, spesso infedele al proprio e altrui essere dono del Donatore divino, realizza, ricrea se stessa solamente in Cristo e in relazione fraterna con ogni persona uguale in dignità. Se siamo stati pensati e voluti nel Verbo incarnato, risorto, questi è la nostra intelligibilità, la nostra verità, il significato, la speranza affidabile del nostro esserci, il tutto in rapporto al quale valutare e scegliere ogni azione o moralità fondata su ragione e fede.

Un “ismo” papale


· Come parla Jorge Mario Bergoglio ·

08 gennaio 2014
Altro che abolirlo: Francesco ha smascherato un nuovo peccato

L'ex alunno di Jorge Mario Bergoglio, Jorge Milia, si sofferma su un altro dei neologismi usati da Papa Francesco, parole prese in prestito o derivate dal lunfardo lo slang di Buenos Aires e declinate ad arricchire in maniera incisiva il linguaggio della sua predicazione.



Questa volta Milia non si sofferma su un discorso, ma su un documento, l'Evangelii gaudium dove ritrova l'uso del termine habriaqueísmo, letteralmente “doverfarismo”. Quante volte ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di “quello che si dovrebbe fare” come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele. Ci sono “vite consumate nel servizio” e ci sono vite che si consumano teorizzando quello che bisognerebbe fare. L’”ismo” del dover fare. Per questi ultimi Papa Francesco ha inaugurato un nuovo peccato (altro che abolirlo, il peccato!): il “doverfarismo”.

di Jorge Milia

mercoledì 8 gennaio 2014

Terra Santa: I ricordi di un testimone carmelitano

Paolo VI in Terra Santa. I ricordi di un testimone carmelitano - 2
di P. Aldino CAZZAGO ocd

Come è facilmente comprensibile, Paolo VI fece il suo pellegrinaggio in Terra Santa dal 4 al 6 gennaio 1964, accompagnato da alcuni cardinali e vescovi, da personale della Curia Vaticana, dal suo Segretario particolare Mons. Pasquale Macchi e da altri, invitati da lui stesso o dalle Autorità vaticane. Fra questi ultimi vi era anche il Padre Generale dei Carmelitani Scalzi che in quel tempo era P. Anastasio Ballestrero (1913-1998), poi vescovo di Bari e di Torino e dal 1979 al 1985 Presidente della Conferenza Episcopale Italiana. A distanza di mezzo secolo, i ricordi lasciati da queste persone sono assai importanti per una più esaustiva ricostruzione del viaggio del pontefice. Spesso ciò che essi videro e sperimentarono sfuggì, ma non poteva essere altrimenti, allo stesso Paolo VI.

Quali sono le ragioni che giustificano la presenza di P. Anastasio in Terra Santa al fianco di Paolo VI? In fase di preparazione del viaggio, le Autorità vaticane avevano pensato di includere tra i luoghi da visitare anche il Monte Carmelo, il luogo dove secondo la tradizione biblica visse e operò il profeta Elia e dove sul finire del XII secolo iniziarono la loro esperienza monastica ed eremitica i primi Carmelitani. Per motivi di sicurezza, dovendo il pontefice entrare nella città di Haifa, il progetto iniziale venne accantonato. Nonostante questo, pochi giorni prima di quel 4 gennaio a P. Anastasio venne chiesto di seguire ugualmente il papa nel viaggio ormai imminente. Come risulta dalla cronaca della Casa Generalizia dell’Ordine (cfr. Acta Ordinis Carmelitarum Discalceatorum, fascicolo, 1-6 [1965] 56-57) il 2 gennaio, P. Anastasio, appena giunto a Gerusalemme si reca al monastero delle Carmelitane Scalze situato sul Monte degli Ulivi. Il giorno seguente visita il monastero di Betlemme e poi fa ritorno a Gerusalemme. Nel pomeriggio del 4 gennaio si avvia verso la Porta di Damasco per attendere l’arrivo del papa perché è da qui che, percorrendo il tragitto della Via Crucis, il corteo papale giungerà alla Chiesa del Santo Sepolcro. Come mostrano i filmati, Paolo VI salì lungo quel dedalo di stradine stretto da una indescrivibile calca di fedeli e correndo più volte anche il rischio di essere travolto. Ecco allora le vive parole di P. Anastasio:

«La Via Crucis l’ha cominciata chi ha potuto: per esempio i cardinali e gran parte del seguito del papa sono stati travolti dalla folla e non l’hanno più trovato, e sono finiti all’albergo … non tutti ma parecchi. Dei cardinali, nessuno dei tre è arrivato; dei patriarchi, alla basilica del S. Sepolcro c’era solo quello latino, che era andato prima, per un’altra strada, per riceverlo. Degli altri, l’unico arrivato è stato il patriarca maronita […]. Ci siamo incamminati piano, piano, piano ….. C’era la Legione Araba che doveva garantire l’ordine, ma ci voleva altro! Poveretti, appena vedevano il papa gli andavano incontro. Col loro istinto di salutare l’ospite toccandolo, tutti volevano toccare il papa, e questo povero uomo era proprio sommerso. Per fortuna c’era un gruppetto di ufficiali dei Carabinieri italiani che la Segreteria di Stato aveva chiesto come guardia del corpo - erano in borghese, naturalmente - i quali quando hanno visto la mala parata, hanno fatto un quadrato intorno al papa, lo hanno difeso per lo meno dal cadere per terra. […]. Quando ho visto che non c’era più ordine, perché il Corpo Diplomatico aveva fatto cento metri poi non si è più visto, mi sono affiancato al patriarca maronita e gli ho detto. “Eccellenza, qui bisogna far di forza, no?”. E a forza di gomitate - lui, si capisce, era patriarca … - siamo riusciti - a rimanere - diciamo - nel corteo del papa: lo precedevamo».

Terminato il tragitto della Via Crucis, il papa giunge finalmente al Santo Sepolcro.
Racconta P. Anastasio: «Insomma quando il Signore ha voluto è arrivato il Santo Padre. Era lì che sudava come un fiume, proprio: l’hanno dovuto asciugare con quattro o cinque fazzoletti perché grondava, era proprio congestionato. Abbiamo cantato il Te Deum e poi è cominciata la messa. Io ho avuto la fortuna di essere proprio a un metro dal papa per cui ho potuto vederla e assisterla bene: è stata una messa emozionante, l’ha detta in pianto. Nel canto del Te Deum era lui, sereno, anzi io mi dicevo: “Come si domina bene!”. Ma quando è cominciata la messa non ce l’ha più fatta … è stato preso dal singhiozzo, ecco. Ha detto la messa tra i singhiozzi, proprio piangendo, piangendo, specialmente al Vangelo. Durante il Vangelo, durante la consacrazione, ma proprio da vedere gli scossoni a tutta la persona … sì, sì: si vedere proprio che era preso, povero papa. […]. Dopo la messa ha fatto la predica, quella bellissima predica … quella specie di predica preghiera, molto bella. Poi è sceso dentro, proprio nel Sepolcro, ma molto rapidamente. Ha deposto sul sepolcro un ramo d’ulivo d’oro e poi, sempre in basilica, è andato al Calvario, proprio suo luogo della crocifissione, e quindi è andato alla Delegazione Apostolica. Credo sia stata la cerimonia che lo ha emozionato di più: al Sepolcro proprio non si è dominato. E infatti poi ho sentito dire da un cardinale che il papa stesso gli aveva detto: “Il viaggio è stato una cosa emozionante, ma certo che al Sepolcro per me è stata una cosa dell’altro mondo”».

Infine un accenno alla ventilata ipotesi della visita al Monte Carmelo:
«L’intenzione di andare al Carmelo c’era. Mi diceva il cardinale Cicognani, Segretario di Stato: “Il papa non fa che dirci questo: “Guardate, io sono figlio dell’obbedienza. Fate come potete, meglio che potete, però fatemi vedere tutto quello che potete perché è la prima volta che vado in Terra Santa e sarà anche l’ultima, e il desiderio di vedere tutto quello che posso, veramente ce l’ho, quindi …”».
Quando P. Anastasio raccontò la sua esperienza del viaggio in Terra Santa al seguito di Paolo VI? La cosa accadde il 25 febbraio 1964, a nemmeno due mesi dal viaggio, durante una conversazione con le Carmelitane Scalze di Firenze (cfr. A. Ballestrero, Autoritratto di una vita. P. Anastasio si racconta, Edizioni OCD, Roma 2002, pp. 196-199). A distanza di cinquant’anni, la ricchezza di quei ricordi non cessa di commuovere tutti, ma in modo particolare, chi, per averli visti, conosce quei Luoghi Santi.

Carta della laicità nella scuola


martedì 7 gennaio 2014

«La nostra patria per noi sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi. La nostra patria è la nostra fede, la nostra terra, il nostro re... Ma la loro patria cos’è per loro? Voi lo capite?... Loro l’hanno nel cervello, noi la sentiamo sotto i nostri piedi...»
Sono convinti di essere «moderni» e di portare alla società e alla scuola una ventata di novità, e un più ampio respiro.
E invece sono i campioni del più bieco integralismo antireligioso, di matrice totalitaria e nazista. Basta sostituire alla «razza» la parola «laicità», ed allora si troveranno tutti gli strumenti per cancellare ogni diversità. Ma c’è un particolare: oggi il nazismo è stato vinto ed è considerato il «male assoluto» (ed è andata meglio per il comunismo, semplice «errore»), mentre la «laicità repubblicana» sembra godere di un credito e di un’aura di bene che la fanno diventare un modello cui ispirarsi. Così Micro(cervello)Mega(idiozie) ci propone, con notevole ritardo, la «Carta [francese] della laicità» che non si configura come «semplice ‘tolleranza’ delle diverse opinioni, ma un insieme di valori e princìpi molto solidi che vanno insegnati anche, e forse soprattutto, nelle scuole pubbliche».
Sono dei poveretti, che hanno una sola capacità: distruggere ciò che non capiscono, travestendo questo loro risentimento con maschere di libertà e rispetto. Soprattutto affermando in linea di principio dei valori che sono esplicitamente smentiti quando diventano possibilità di esperienza e di libertà.
Si perde tempo a considerali come interlocutori seri, là dove è evidente la mistificazione. Faccio solo un esempio. «4. La laicità garantisce la libertà di coscienza di tutti: ognuno è libero di credere o non credere. Essa permette la libera espressione delle proprie convinzioni, nel rispetto di quelle degli altri e nei limiti dell’ordine pubblico». Che cosa ne pensate? Immaginate che la scuola sia una palestra di libertà, di confronto, di rispetto, soprattutto di simpatia verso ogni tentativo giovanile di esprimere un ideale e di proporlo alla verifica di tutti. Del resto le università sono nate (anche nel medioevo francese) con questo intendimento e con questo metodo (qui nella nostra povera Italia si è stabilito che la cultura è libera e libero ne è l’insegnamento).
Facciamo un passo avanti e troviamo, per esempio: «15. Nessuno studente può appellarsi a una convinzione politica o religiosa per contestare a un insegnante il diritto di trattare una parte del programma…» oppure: «E’ vietato invocare la propria appartenenza religiosa per rifiutare di conformarsi alle regole applicabili nella scuola della repubblica. Negli istituti scolastici pubblici è vietato esibire simboli o divise tramite i quali gli studenti ostentino palesemente un’appartenenza religiosa…» e così quello che da una parte ti è concesso, dall’altra ti viene negato. Ricordate la passione del ’68? La fierezza con cui si contestava ogni imposizione di sapere per il sacrosanto diritto di cercare, di esprimersi, di dialogare? Ricordate la fierezza con cui si voleva mettere alla sbarra ogni posizione, chiedendo di non sottrarre nulla al tribunale della coscienza e della critica? Acqua passata, illusioni giovanilistiche, posizioni destabilizzanti. Ora il nuovo padrone (quel potere omologante di cui ci parlava con passione critica Pasolini) non può accettare contraddittorio, non può tollerare che le idee abbiano carne e ossa, vogliano diventare esperienza. Si realizza il progetto totalitario dei giacobini, a cui rispondeva uno dei capi della Vandea, Monsieur de Charette. Egli disse un giorno ai suoi seguaci: «La nostra patria per noi sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi. La nostra patria è la nostra fede, la nostra terra, il nostro re... Ma la loro patria cos’è per loro? Voi lo capite?... Loro l’hanno nel cervello, noi la sentiamo sotto i nostri piedi...». Per quanto sarà possibile, negli spazi che ancora restano (pochi) di libertà, non accetteremo lo scempio del nostro popolo e dei nostri giovani. Facciamo nostro il grido di Papa Francesco: «Il compito educativo oggi è una missione chiave, chiave, chiave!», e senza libertà non ci sarà mai educazione!

Da libro della Vita di S.Teresa di Gesù


Pertanto, la signoria vostra, signore, non cerchi altra strada, anche se si trova all’apice della contemplazione; per tale cammino non correrà rischi. Questo nostro Signore è la fonte di ogni nostro bene. Egli c’indicherà la strada; guardando alla sua vita, vi troveremo un modello senza uguali. Che vogliamo di più di un così fedele amico al nostro fianco, che non ci abbandonerà nelle sventure e nelle tribolazioni, come fanno quelli del mondo? Fortunato colui che lo amerà sinceramente e lo avrà sempre vicino a sé! Guardiamo al glorioso san Paolo che sembrava avesse continuamente sulla bocca il nome di Gesù, come colui che lo teneva bene impresso nel cuore. Io, dopo aver compreso questa verità, ho considerato attentamente la vita di alcuni santi, grandi spiriti contemplativi, e ho visto che non seguivano altra strada: san Francesco lo fa vedere con le stigmate, sant’Antonio di Padova con il bambino Gesù, san Bernardo con il godere dell’umanità di Cristo, e ancora lo provano santa Caterina da Siena e molti altri che vostra signoria conoscerà meglio di me.

Come cresce una società

FamilyLivingPicture

di Ettore Gotti Tedeschi
Sono quasi vent’anni che tratto, in ottica economica, temi a difesa della vita, della famiglia, e propongo il crollo della natalità quale origine vera della attuale crisi economica. Sarà forse per questo che una parte del mondo cattolico non mi ama. Sono quasi vent’anni che cerco di spiegare qualitativamente e quantitativamente che senza aumento delle nascite il Pil – di fatto e senza retorica accademica – nel mondo cresce solo se si fanno crescere i consumi individuali.
Per creare una cultura di consumismo si devono installare nella cervice umana concetti di soddisfazione materialistica al posto di quelli di soddisfazione intellettuale e spirituale. In pratica per sentirsi soddisfatti, materialmente, ci si deve sentire “animali intelligenti”.
Se ciò non fosse non ci si contenterebbe dei beni materiali (in senso lato). Ma la crescita consumistica, quale compensazione di crescita zero della popolazione, non crescendo realmente e in modo sostenibile il Pil, pretende potere di acquisto in crescita. Se quello reale non c’è, si comincia a “mangiar” risparmio per arrivare progressivamente alla magia dell’indebitamento progressivo. In un sistema poi di welfare maturo la non crescita reale del Pil produce la crescita reale dei costi fissi (sanità, pensioni, ecc.) che viene coperto da sempre maggiori imposte, che riducono il potere di acquisto e gli investimenti. Per sostenere detto potere di acquisto necessario ai consumi si delocalizzano le produzioni in Paesi a basso costo. Ma questo, senza strategie alternative, crea vulnerabilià di produzione e occupazione… In pratica crea la situazione cui siamo arrivati. Ma di ciò non possiamo parlare in vera libertà perché il problema, quando dalla diagnosi si passa alla prognosi, viene allora ricondotto ad essere un tema morale. E la morale come orientamento di discussione “scientifico” è rifiutata. I figli non si possono più fare.
Vorrei prendere questa occasione per invitare il lettore a leggere l’Enciclica di papa Francesco (Lumen fidei) che curiosamente non ha destato l’attenzione dovuta. Forse perché spiega le responsabilità della Chiesa quando si limita ad esser consolatoria e non maestra.
In Lumen fidei Francesco spiega che l’uomo ha bisogno di verità di riferimento per dar senso alla vita, alle azioni e valorizzare la società, la famiglia. Gli equilibri socio-economici dipendono da questi valori attuati. Il valore essenziale, antropologico e logico, della vita umana viene trattato da Paolo VI in Humanae vitae, che a momenti non provoca uno scisma grazie alle reazioni teologiche dei H. Kung o K. Rahner, più vicine alle richieste del mondo globale che alla dottrina cattolica. Così i neomaltusiani ebbero spazio e buon gioco nell’imporre il pensiero antinatalità che ci ha portato quasi alla distruzione di un sistema di civiltà.
Qualche mese fa si lesse sui giornali che il reddito delle famiglie italiane era tornato indietro di 27 anni. No, in realtà era cresciuto illusoriamente in 27 anni, sostituendo la crescita consumistica a una crescita equilibrata della popolazione, nella illusione folle che non facendo figli si sarebbe diventati più ricchi. Ma la natura ha dimostrato il contrario, o persino peggio: senza fare figli non si può neppure più mantenere i vecchi… quelli che hanno decretato la bontà del maltusianesimo. Mancando idee in un tempo di emergenza culturale, idee false appaiono vere.
Test per il lettore: nasce prima l’uovo o la gallina?
Voglio dire: si deve esser ricchi per far famiglia e figli o si diventa ricchi facendo famiglia e figli? Oggi ci si lamenta che una coppia a parità di status professionale, età ecc. guadagni mediamente meno del solo capofamiglia trent’anni fa. Ciò perché in trent’anni, per sostenere i costi fissi del Welfare, non più assorbibili dalla crescita reale dell’economia, si son dovute crescere le imposte sul Pil del 100%, si sono cioè raddoppiate e conseguentemente ridotto il potere di acquisto.
Boicottando conseguentemente la famiglia si è concorso a svantaggiare l’intera società che si è convertita in un sistema senza fini, senza identità, dove gli individui realizzano le proprie aspirazioni e vocazioni naturali in modo quasi “selvaggio”, deresponsabilizzato, spesso inconsapevole, senza ideali e aspirazioni di progetti di formare famiglie, fare ed educare i figli.
Così si sta perdendo (o si è già perso?) anche il valore economico della famiglia legato allo stimolo, impegno e perseguimento di fini responsabili, che presuppongono, dal punto di vista economico, impegno particolare nel produrre, nel risparmiare, nell’investire, nel consumare. Ma questo tipo di famiglia produce anche sani stimoli competitivi nell’educazione e formazione individuale dei figli, a vantaggio della società. Detta famiglia che di fatto prende in outsourcing dallo Stato formazione e sussidi ai giovani e cura anziani e malati, svolge un triplice ruolo socio-economico. Quello di investitore in capitale umano, quello di ridistributore di reddito al suo interno, secondo i veri bisogni, quello di risparmiatore a vantaggio
della società. Detta famiglia andrebbe quotata in Borsa tanto produce valore economico… (per intenderlo si studi Lumen fidei, capitolo IV).
Invece di sentire proposte a sostegno della famiglia, se ne sentono invece a favore della decrescita centrata sul congelamento delle nascite e mortificazione della famiglia stessa. Gli ecomaltusiani, non ancora pentiti, continuano a rifiutare di comprendere la natura e le sue leggi. Anche Caino era per la decrescita della popolazione, per ragioni di gelosia, ma aveva anche lui inventato la scusa ecologico-animalista: uccise Abele perché costui sacrificava troppi agnelli al Signore producendo inquinamento atmosferico…
fonte> Formiche.net

martedì 7 gennaio 2014

Il Papà: mettere alla prova il nostro cuore per ascoltare Gesù, non il falsi profeti




Il cristiano sa vigilare sul suo cuore per distinguere ciò che viene da Dio e ciò che viene dai falsi profeti. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta, la prima dopo le festività natalizie. Il Papa ha ribadito che la via di Gesù è quella del servizio e dell’umiltà. Una via che tutti i cristiani sono chiamati a seguire. Il servizio di Alessandro Gisotti:

“Rimanete nel Signore”. Papa Francesco ha svolto la sua omelia muovendo da questa esortazione dell’Apostolo Giovanni, contenuta nella Prima lettura. Un “consiglio di vita”, ha osservato, che Giovanni ripete in modo “quasi ossessivo”. L’Apostolo indica “uno degli atteggiamenti del cristiano che vuole rimanere nel Signore: conoscere cosa succede nel proprio cuore”. Per questo avverte di non prestare fede a ogni spirito, ma di mettere “alla prova gli spiriti”. E’ necessario, ha evidenziato il Papa, saper “discernere gli spiriti”, discernere se una cosa ci fa “rimanere nel Signore o ci allontana da Lui”. “Il nostro cuore – ha soggiunto – sempre ha desideri, ha voglie, ha pensieri”. Ma, si è chiesto, “questi sono del Signore o alcuni di questi ci allontanano dal Signore?” Ecco allora che l’Apostolo Giovanni ci esorta a “mettere alla prova” ciò che pensiamo e desideriamo:

“Se questo va nella linea del Signore, così andrai bene, ma se non va… Mettete alla prova gli spiriti per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo. Profeti o profezie o proposte: ‘Io ho voglia di far questo!’. Ma questo non ti porta al Signore, ti allontana da Lui. Per questo è necessaria la vigilanza. Il cristiano è un uomo o una donna che sa vigilare il suo cuore. E tante volte il nostro cuore, con tante cose che vanno e vengono, sembra un mercato rionale: di tutto, tu trovi di tutto lì... E no! Dobbiamo saggiare – questo è del Signore e questo non è – per rimanere nel Signore”.

Qual è, dunque, il criterio per capire se una cosa viene da Cristo oppure dall’anticristo? San Giovanni, ha affermato il Papa, ha un’idea chiara, “semplice”: “Ogni spirito che riconosce Gesù Cristo, venuto nella carne, è di Dio. Ogni spirito che non riconosce Gesù non è di Dio: è lo spirito dell’anticristo”. Ma cosa significa, dunque, “riconoscere che il Verbo è venuto in carne?” Vuol dire, ha osservato il Pontefice, “riconoscere la strada di Gesù Cristo”, riconoscere che Lui, “essendo Dio, si è abbassato, si è umiliato” fino alla “morte di croce”:

“Quella è la strada di Gesù Cristo: l’abbassamento, l’umiltà, l’umiliazione pure. Se un pensiero, se un desiderio ti porta su quella strada di umiltà, di abbassamento, di servizio agli altri, è di Gesù. Ma se ti porta sulla strada della sufficienza, della vanità, dell’orgoglio, sulla strada di un pensiero astratto, non è di Gesù. Pensiamo alle tentazioni di Gesù nel deserto: tutte e tre le proposte che fa il demonio a Gesù sono proposte che volevano allontanarlo da questa strada, la strada del servizio, dell’umiltà, dell’umiliazione, della carità. Ma la carità fatta con la sua vita, no? Alle tre tentazioni Gesù dice di no: ‘No, questa non è la mia strada!’”.

Il Papa ha, quindi, invitato tutti a pensare proprio a cosa succede nel nostro cuore. A cosa pensiamo e sentiamo, a cosa vogliamo, a vagliare gli spiriti. “Io metto alla prova quello che penso, quello che voglio, quello che desidero – ha domandato – o prendo tutto?”:

“Tante volte, il nostro cuore è una strada, passano tutti lì… Mettere alla prova. E scelgo sempre le cose che vengono da Dio? So quale sono quelle che vengono da Dio? Conosco il vero criterio per discernere i miei pensieri, i miei desideri? Pensiamo questo e non dimentichiamo che il criterio è l’Incarnazione del Verbo. Il Verbo è venuto in carne: questo è Gesù Cristo! Gesù Cristo che si è fatto uomo, Dio fatto uomo, si è abbassato, si è umiliato per amore, per servire tutti noi. E l’Apostolo Giovanni ci conceda questa grazia di conoscere cosa succede nel nostro cuore e avere la saggezza di discernere quello che viene da Dio e quello che non viene da Dio

Saccomanni: “Tasse in calo nel 2014″. Adusbef: “Fandonie, si dimetta”


ROMA – “Tasse in calo nel 2014″, ha dichiarato il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, parlando di “anno della svolta”. “Tutte fandonie, si dimetta”, tuona il presidente dell’Adusbef Elio Lannutti, che non crede alle parole del ministro.
Tutto inizia con l’intervista rilasciata da Saccomanni al quotidiano la Repubblica, in cui il ministro afferma:
“Il 2014 sarà l’anno della svolta. La ripresa si consoliderà e famiglie e imprese pagheranno meno tasse. Ma la precondizione è la stabilità politica, senza la quale l’Italia è a rischio”.
Per il ministro le risorse in arrivo dalla spending review e dal rientro dei capitali permetteranno un calo delle tasse per i contribuenti italiani:
“Nel prossimo triennio le tasse si ridurranno di ben 9 miliardi, con un calo graduale anno per anno. Le risorse arriveranno dalla spending review e dal provvedimento sul rientro dei capitali, che vareremo all’inizio di febbraio. E anche dal recupero dell’evasione fiscale”.
Se il calo dello spread per Saccomanni “è un riconoscimento oggettivo dei progressi del Paese”, la stabilità politica resta la condizione “decisiva” per portare a termine gli obiettivi del governo. Ma Lannutti, presidente dell’Adusbef, è scettico:
“Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, per la sesta volta in 9 mesi, ha garantito oggi che ci sarà un calo delle tasse, come aveva già fatto nelle cinque puntate precedenti, affermando solennemente che la nuova imposta sugli immobili denominata Iuc, non sarebbe stata più pesante della vecchia Imu, propinando fandonie”.
Con l’aumento dell’aliquota dell’1 per mille per garantire ai sindaci la copertura degli sgravi Imu per alcune fasce, spiega Lannutti, la nuova Iuc supererà i 28 miliardi di euro, contro i 20 miliardi di gettito Imu del 2012 e i 9,2 miliardi dell’Ici 2011:
“Se il viceministro dell’Economia Fassina si è dimesso per una battuta infelice sul suo conto del segretario del suo partito, a maggior ragione dovrebbe rassegnare irrevocabili dimissioni Saccomanni, per le fandonie che racconta ogni giorno sulla pressione fiscale”.

Odio contro Bersani. Chi semina vento?

di Stefano Magni
07-01-2014

È riemersa ancora una volta: l’Italia che odia. In questo caso il fattore scatenante non è una dichiarazione di un ministro e neppure una nuova legge, ma una malattia. È l’emorragia cerebrale, patita da Pierluigi Bersani tre giorni fa (per la quale è stato operato ed è tuttora ricoverato a Parma) che ha fatto da detonatore. Non solo all’ex segretario del Pd, ma anche a tutti gli altri politici. Impossibile capire quale sia la molla che spinge così tante persone a tifare per il decorso mortale di una malattia, di un male che non deriva da mano umana. Nell’invocare l’azione distruttrice della natura, si cela comunque la volontà di morte, quella di uccidere, di eliminare fisicamente il nemico.

Non è la prima volta che la malattia, invece che suscitare compassione, scatena l’odio in rete. Già gli animalisti avevano dato una pessima prova di sé scatenandosi contro Caterina Simonsen, augurandole la morte dopo che lei, malata di gravi e rare patologie, si era detta salva anche grazie alla sperimentazione animale. Un caso ancora più assurdo, anche se meno notato dai media, è stata la grottesca e lugubre carica di sadico umorismo scatenatasi sul Web dopo la diffusione della notizia (probabilmente falsa) sulle modalità di esecuzione dello zio di Kim Jong-un. Secondo un quotidiano di Hong Kong, sarebbe stato chiuso in una gabbia e fatto sbranare da 120 cani famelici. “Così si fa coi corrotti!” è stato il commento più gettonato sui forum Internet e sui social network. C’è chi suggerisce di far sbranare Giorgio Napolitano, chi Letta, chi “gli evasori”. Sul forum online de Il Fatto Quotidiano si trovano i più esagitati e fantasiosi. Ma anche dalle altre parti non si scherza. Quasi nessuno deplora, pochi inorridiscono, i più preferiscono immaginarsi scene sadiche dei suoi nemici sbranati.

Solo macabri scherzi? L’ondata di violenza che si è abbattuta su Bersani, un uomo appena ricoverato, non denota molto senso dello humor. «Io festeggio per il male di Bersani e spero che schiatti lentamente, soffrendo tanto tanto. Perché per me gentaglia del suo stampo non va rispettata a priori». «Ogni tanto una bella notizia! (…) Giustizia Divina pensaci tu!». «Chi semina raccoglie» (sic!). «Speriamo che ci resta secco». «Peccato che sono sempre poche queste belle notizie». Questi sono solo alcuni dei commenti comparsi sul forum online de Il Fatto Quotidiano, (verbi declinati in modo sbagliato inclusi). Sul forum del sito de La Repubblica il tenore è analogo: «Dopo tutti i suicidi in Italia… grazie anche alle sue ruberie, dico: e chi se ne frega!». «Uno in meno!». «Una pensione in meno? Speriamo!». «Speriamo che muore». «Speriamo che si aggravi! Nessuna pietà per gente del genere!». «Muori Bersani! Spero che arrivi morto in ospedale!». «Ommioddio!! C’è ancora gente che difende i nostri politici??? Pecoreeee, quanto prendete al mese???? Pecoreeee, sono tutti delle merde e meritano la morte!!!! Così come loro stanno uccidendo noi». Quest’ultimo commento era una risposta a un utente che aveva “osato” difendere la dignità di un uomo ammalato.

L’Unità che riporta questi e altri commenti, li ritiene opera di “trolls”, cioè di disturbatori di professione. Non è così. Chi scrive ha visto l’odio in rete di persone conosciute, sui social network, dove non c’è alcuna censura che tenga. Chi scrive si è beccato dell’ipocrita da persone che hanno nomi e cognomi. Perché, dal punto di vista dell’odiatore, chi non odia è certamente “ipocrita”. Come se l’odio fosse la condizione naturale dell’uomo, specie se rivolto al nemico politico (o di classe, o di razza). L’odio è reale e diffuso, non è una fantasia, non è prodotto da “troll”, finte identità che fluttuano nel Web come fantasmi. L’odio non si percepisce solo su Internet, dove piccoli odiatori vigliacchi si sfogano sulla tastiera, proteggendosi dietro lo schermo, l’anonimato e l’astrazione garantita da un sito virtuale. Lo si inizia a sentire, a percepire ovunque, negli autobus, nei bar, nelle conversazioni dal barbiere, ovunque due o tre o più persone si incontrano e si mettono a parlare di politica.

Che cosa spinge a volere la morte di un politico? È raro che si tratti di una dichiarata inimicizia politica. Gli avversari di centro-destra e grillini sono stati i primi a fare gli auguri di pronta guarigione al loro antagonista e collega. Anche se Grillo non manca di gettare le solite ombre di dubbio: «Oggi tutti, soprattutto i falsi amici, fanno gli auguri di una pronta guarigione a Bersani. È un coro sospetto di personaggi che, in molti casi, devono a lui carriera e successo politico – commenta Beppe Grillo sul suo blog - Bersani ha avuto un pregio, quello di apparire umano, un grande pregio in un mondo di politici artefatti e costruiti a tavolino come dei pupazzi in vendita ai grandi magazzini della politica. In fin dei conti, la sua volontà di smacchiare il giaguaro si è avverata. Credo che abbia sempre saputo che i suoi veri nemici non erano i Cinque Stelle, ma alcuni dei suoi compagni di partito e personaggi delle istituzioni. Bersani, ti aspettiamo, non fare scherzi».

L’odio non arriva dai politici, comunque, ma è un odio che si è già visto nel ’68 e negli anni di piombo e che non finisce mai di rinnovarsi. Questa è infatti la nuova edizione della lotta di classe. Se è vero che i politici si configurano ormai come una casta, l’idea della nuova lotta di classe è quella di eliminarli (anche fisicamente) per sostituirli con “il popolo”. Non per ridurre il peso dello Stato, come hanno sempre suggerito i liberali, ma per sostituire politici “corrotti” con altri “puliti”. Questo odio di classe traspare soprattutto da commenti come: «Anche mio nonno è stato in ospedale, ma nessuno se n’è fregato» (citato testualmente, strafalcioni compresi, dal forum de La Repubblica). C’è gente che sente di appartenere a una casta inferiore e invita dunque a ridimensionare le sofferenze di chi siede “ai piani alti”.

Ma chi alimenta questo odio in rete, allora? Non è un caso che si scateni soprattutto nei forum di quotidiani vicini alla sinistra. Penne della sinistra hanno disumanizzato per decenni gli avversari politici, ridimensionando o ridicolizzando le loro malattie, anche le più gravi. Quando fu Umberto Bossi a patire un ictus, nove anni prima di Bersani, Adriana Zarri, sul Manifesto aveva scritto che il Senatur andava curato da “un veterinario” anziché da un medico normale. Su La Repubblica, l’editorialista Francesco Merlo provò a legare il malore di Bossi ai destini politici del Cavaliere. “In Italia si è capito che Berlusconi è inadeguato e nessuno può più rimetterlo in piedi”; scriveva. “Sarà un caso ma nella malattia di Bossi c’è anche la parabola di Berlusconi, sono le due forme diverse di una stessa sostanza, l’uno ha perso la forza fisica e l’altro il carisma. Il celodurismo è ricoverato in ospedale e la sfrontatezza si è nascosta nel bunker di Villa Certosa”. Ci ricordiamo quanta macabra ironia si scatenò contro Silvio Berlusconi, quando venne colpito da un folle armato di statuina del Duomo di Milano? O quante barzellette e auguri di morte sono seguiti alle notizie sul suo tumore alla prostata? Non un gran rispetto, a dire il vero. E si può dire che questo sia niente rispetto ai tempi (negli anni ’70) in cui si firmavano appelli per uccidere i nemici politici e le campagne di odio collettivo erano orchestrate dall’élite intellettuale della sinistra di allora. Qui si può dire realmente che “chi semina vento raccoglie tempesta”: dopo aver seminato odio di classe, viscerale e disumanizzante, la sinistra, ormai imborghesita e al governo, lo sta subendo. E ne è quantomeno imbarazzata. Era in difficoltà al momento dello scoppio della protesta dei forconi (uno “spin-off” dell’odio marxista contro la globalizzazione), ora non sa come reagire all’odio rivolto contro uno dei suoi stessi esponenti.


Lettere internazionali

Pyongyang/1, 3/1/2014
Antonio Fiori, 03 gennaio 2014

Purghe di successione. Quando, tra la fine del 2008 e la fine del 2009, Kim Jong Il – il Caro Leader – cominciò a riprendersi dalla grave malattia che l’aveva colpito, riducendolo in fin di vita, si pose immediatamente il problema di quale tra i suoi congiunti sarebbe stato degno di succedergli. La scelta cadde sul figlio terzogenito, Kim Jong Un, di cui – fino a quel momento – nessuno sapeva quasi nulla. Gradatamente l’identità e le caratteristiche di questo giovane personaggio cominciarono a rivelarsi: la giovanissima età, la forte somiglianza fisica con il nonno paterno (Kim Il Sung, fondatore della patria), l’aver vissuto alcuni anni in Svizzera per esigenze di studio, l’essersi specializzato in studi militari presso l’Università Kim Il Sung. Alcune di queste caratteristiche non erano necessariamente positive per il nascente leader – l’età e soprattutto la scarsa dimestichezza con gli organismi politici e militari del paese (Kim Jong Un, come del resto il padre, non ha svolto il servizio militare) lo facevano forse mal digerire all’èlite dei militari – e così il padre, per meglio prepararlo a ricevere il testimone del comando, si preoccupò di farlo “accudire” da una cerchia ristretta e fidata di attori, un “gruppo di accompagnamento” che faceva riferimento sostanzialmente a due personaggi: Kim Kyong Hui e il marito Jang Sung Taek. Il primo di questi due personaggi, Kim Kyong Hui, sorella di Kim Jong Il, e quindi zia paterna del nuovo leader, è un personaggio di notevole spessore nella leadership nordcoreana, e ha assunto ulteriore centralità proprio in qualità di “consigliera” del nuovo giovane leader, arrivando a far parte perfino della ristretta cerchia dei membri dell’Ufficio Politico, l’organizzazione centrale del Partito dei Lavoratori. Anche il marito di Kim Kyong Hui – Jang Sung Taek – ha ricoperto dei ruoli di assoluta centralità nell’establishment politico del paese, e alcuni esuli nordcoreani lo indicarono addirittura come il potenziale successore di Kim Jong Il. La carriera di Jang, tuttavia, ha subito una brusca interruzione dal 2004 al 2006, quando egli venne purgato – probabilmente perché stava diventa troppo ingombrante agli occhi del leader o forse per difformità di vedute sul processo di riforma dell’economia – ed escluso dalla vita politica del paese. Jang ritornò decisamente in auge nel 2006, ma il salto di qualità è avvenuto proprio in concomitanza con l’avvio del processo di transizione di potere da Kim Jong Il a Kim Jong Un. Nel 2009, infatti, Jang viene introdotto nella Commissione Nazionale di Difesa, attualmente massimo organismo amministrativo dello Stato nordcoreano, e nel 2010 ne diventa vice-presidente, probabilmente proprio per spianare la strada a Kim Jong Un. Immediatamente dopo egli entrerà a far parte del Politburo e, dopo la morte di Kim Jong Il nel dicembre 2011, Jang sarà il principale responsabile delle relazioni con la Repubblica Popolare Cinese, arrivando ad incontrare personalmente il Primo Ministro cinese Wen Jiabao e il Presidente della Repubblica, Hu Jintao. Molti vedevano in Jang il possibile futuro Presidente dell’Assemblea Suprema del Popolo, ovvero il capo di stato nominale della Corea del Nord.
Niente lasciava quindi presagire ciò che accaduto nelle ultime due settimane in Corea del Nord. Presumibilmente già alla metà di novembre, due fedelissimi di Jang – Ri Ryong Ha e Chang Su Kil – sono stati arrestati e giustiziati dagli uomini del Comando per la Sicurezza della Difesa dell’Armata del Popolo per abuso di potere e cospirazione contro lo Stato, mentre Jang sarebbe stato messo prima agli arresti domiciliari e poi richiuso in una prigione speciale. Il nome di Jang, peraltro, viene cancellato ai primi di dicembre dai siti ufficiali nordcoreani così come le sue immagini, scomparse da numerosi documentari. Ciò che è accaduto l’8 di dicembre, cioè l’arresto di Jang durante una riunione del Politburo – testimoniato drammaticamente dalle immagini restituiteci dal canale televisivo nordcoreano – non sarebbe quindi nient’altro se non una messinscena tesa a dimostrare pubblicamente la “solitudine” di Jang all’interno del partito ed il totale controllo della situazione nelle mani del leader Kim Jong Un. Espulso immediatamente dal Partito e sottoposto a processo, Jang – definito nei capi d’accusa “feccia umana peggiore dei cani” – è stato ritenuto colpevole di alto tradimento, cospirazionismo, corruzione, di aver condotto una vita dissipata, addirittura di essere stato il vero ispiratore delle riforme economiche fallimentari del 2009, per le quali pagò con la vita il tecnocrate Pak Nam Gi. A quel punto la sorte di Jang sembrava inesorabilmente segnata: egli è infatti stato giustiziato la mattina del 13 dicembre, dopo essere stato presumibilmente sottoposto a tortura.

L’infelice sortita di mons. Mogavero


martedì 7 gennaio 2014

A partire dal costante insegnamento della Chiesa e del supremo magistero, il Vescovo è custode, e non creatore, della dottrina cattolica
Sconcerta e disorienta l’ultima uscita del Vescovo di Mazara del Vallo, mons. Domenico Mogavero, circa l’apertura della Chiesa cattolica al riconoscimento legale delle unioni di fatto tra omosessuali.
Secondo il presule, infatti, non solo la legge «non può ignorare centinaia di migliaia di conviventi dello stesso sesso», ma contrasterebbe persino «con la misericordia cristiana e con i diritti universali il fatto che i conviventi per la legge non esistano». Per questo, sempre secondo mons. Mogavero, appare «legittimo riconoscere diritti come la reversibilità della pensione o il subentro nell’affitto, in virtù della centralità della persona», e insostenibile «che per la legge il convivente sia un signor Nessuno».
Il Vescovo di Mazara del Vallo conosce, assai meglio di chi scrive, quale sia la posizione della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’unica fonte autorevole legittimata ad esprimersi in materia.
L’ultima posizione ufficialmente espressa dalla predetta Congregazione sulla questione è costituita dall’ottimo documento redatto il 3 giugno 2003 – a firma dell’allora Prefetto Card. Joseph Ratzinger – intitolato Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali. In quel corposo documento vi è un apposito capitolo, il terzo, intitolato Argomentazioni razionali contro il riconoscimento legale delle unioni omosessuali. In esso si articola l’opposizione al riconoscimento attraverso quattro differenti prospettive: di ordine relativo alla retta ragione; di ordine biologico e antropologico; di ordine sociale; di ordine giuridico.

Sul primo ordine (relativo alla retta ragione), l’organismo della Curia romana incaricato di vigilare sulla purezza della dottrina della Chiesa cattolica sostiene quanto segue:
«Il compito della legge civile è certamente più limitato riguardo a quello della legge morale, ma la legge civile non può entrare in contraddizione con la retta ragione senza perdere la forza di obbligare la coscienza. Ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di legge in quanto è conforme alla legge morale naturale, riconosciuta dalla retta ragione, e in quanto rispetta in particolare i diritti inalienabili di ogni persona. Le legislazioni favorevoli alle unioni omosessuali sono contrarie alla retta ragione perché conferiscono garanzie giuridiche, analoghe a quelle dell’istituzione matrimoniale, all’unione tra due persone dello stesso sesso. Considerando i valori in gioco, lo Stato non potrebbe legalizzare queste unioni senza venire meno al dovere di promuovere e tutelare un’istituzione essenziale per il bene comune qual è il matrimonio.
Ci si può chiedere come può essere contraria al bene comune una legge che non impone alcun comportamento particolare, ma si limita a rendere legale una realtà di fatto che apparentemente non sembra comportare ingiustizia verso nessuno. A questo proposito occorre riflettere innanzitutto sulla differenza esistente tra il comportamento omosessuale come fenomeno privato, e lo stesso comportamento quale relazione sociale legalmente prevista e approvata, fino a diventare una delle istituzioni dell'ordinamento giuridico. Il secondo fenomeno non solo è più grave, ma acquista una portata assai più vasta e profonda, e finirebbe per comportare modificazioni dell’intera organizzazione sociale che risulterebbero contrarie al bene comune. Le leggi civili sono principi strutturanti della vita dell’uomo in seno alla società, per il bene o per il male. Esse svolgono un ruolo molto importante e talvolta determinante nel promuovere una mentalità e un costume. Le forme di vita e i modelli in esse espresse non solo configurano esternamente la vita sociale, bensì tendono a modificare nelle nuove generazioni la comprensione e la valutazione dei comportamenti. La legalizzazione delle unioni omosessuali sarebbe destinata perciò a causare l’oscuramento della percezione di alcuni valori morali fondamentali e la svalutazione dell’istituzione matrimoniale».

Sul secondo punto (quello di ordine biologico e antropologico) la Congregazione afferma quanto segue:
«Nelle unioni omosessuali sono del tutto assenti quegli elementi biologici e antropologici del matrimonio e della famiglia che potrebbero fondare ragionevolmente il riconoscimento legale di tali unioni.
Esse non sono in condizione di assicurare adeguatamente la procreazione e la sopravvivenza della specie umana. L’eventuale ricorso ai mezzi messi a loro disposizione dalle recenti scoperte nel campo della fecondazione artificiale, oltre ad implicare gravi mancanze di rispetto alla dignità umana, non muterebbe affatto questa loro inadeguatezza.
Nelle unioni omosessuali è anche del tutto assente la dimensione coniugale, che rappresenta la forma umana ed ordinata delle relazioni sessuali. Esse infatti sono umane quando e in quanto esprimono e promuovono il mutuo aiuto dei sessi nel matrimonio e rimangono aperte alla trasmissione della vita.
Come dimostra l’esperienza, l’assenza della bipolarità sessuale crea ostacoli allo sviluppo normale dei bambini eventualmente inseriti all'interno di queste unioni. Ad essi manca l'esperienza della maternità o della paternità. Inserire dei bambini nelle unioni omosessuali per mezzo dell’adozione significa di fatto fare violenza a questi bambini nel senso che ci si approfitta del loro stato di debolezza per introdurli in ambienti che non favoriscono il loro pieno sviluppo umano. Certamente una tale pratica sarebbe gravemente immorale e si porrebbe in aperta contraddizione con il principio, riconosciuto anche dalla Convenzione internazionale dell'ONU sui diritti dei bambini, secondo il quale l'interesse superiore da tutelare in ogni caso è quello del bambino, la parte più debole e indifesa».

Sul terzo punto (quello di ordine sociale) sempre l’ex Sant’Uffizio così si pronuncia:
«La società deve la sua sopravvivenza alla famiglia fondata sul matrimonio. La conseguenza inevitabile del riconoscimento legale delle unioni omosessuali è la ridefinizione del matrimonio, che diventa un’istituzione la quale, nella sua essenza legalmente riconosciuta, perde l'essenziale riferimento ai fattori collegati alla eterosessualità, come ad esempio il compito procreativo ed educativo. Se dal punto di vista legale il matrimonio tra due persone di sesso diverso fosse solo considerato come uno dei matrimoni possibili, il concetto di matrimonio subirebbe un cambiamento radicale, con grave detrimento del bene comune. Mettendo l'unione omosessuale su un piano giuridico analogo a quello del matrimonio o della famiglia, lo Stato agisce arbitrariamente ed entra in contraddizione con i propri doveri.
A sostegno della legalizzazione delle unioni omosessuali non può essere invocato il principio del rispetto e della non discriminazione di ogni persona. Una distinzione tra persone oppure la negazione di un riconoscimento o di una prestazione sociale non sono infatti accettabili solo se sono contrarie alla giustizia. Non attribuire lo statuto sociale e giuridico di matrimonio a forme di vita che non sono né possono essere matrimoniali non si oppone alla giustizia, ma, al contrario, è da essa richiesto. Neppure il principio della giusta autonomia personale può essere ragionevolmente invocato. Una cosa è che i singoli cittadini possano svolgere liberamente attività per le quali nutrono interesse e che tali attività rientrino genericamente nei comuni diritti civili di libertà, e un’altra ben diversa è che attività che non rappresentano un significativo e positivo contributo per lo sviluppo della persona e della società possano ricevere dallo Stato un riconoscimento legale specifico e qualificato. Le unioni omosessuali non svolgono neppure in senso analogico remoto i compiti per i quali il matrimonio e la famiglia meritano un riconoscimento specifico e qualificato. Ci sono invece buone ragioni per affermare che tali unioni sono nocive per il retto sviluppo della società umana, soprattutto se aumentasse la loro incidenza effettiva sul tessuto sociale».

Sul quarto ed ultimo punto (quello di ordine giuridico) questa è la posizione della Congregazione per la Dottrina della Fede:
«Poiché le coppie matrimoniali svolgono il ruolo di garantire l’ordine delle generazioni e sono quindi di eminente interesse pubblico, il diritto civile conferisce loro un riconoscimento istituzionale. Le unioni omosessuali invece non esigono una specifica attenzione da parte dell'ordinamento giuridico, perché non rivestono il suddetto ruolo per il bene comune. Non è vera l'argomentazione secondo la quale il riconoscimento legale delle unioni omosessuali sarebbe necessario per evitare che i conviventi omosessuali perdano, per il semplice fatto della loro convivenza, l’effettivo riconoscimento dei diritti comuni che essi hanno in quanto persone e in quanto cittadini. In realtà, essi possono sempre ricorrere – come tutti i cittadini e a partire dalla loro autonomia privata – al diritto comune per tutelare situazioni giuridiche di reciproco interesse. Costituisce invece una grave ingiustizia sacrificare il bene comune e il retto diritto di famiglia allo scopo di ottenere dei beni che possono e debbono essere garantiti per vie non nocive per la generalità del corpo sociale».

Proprio qui sta il punto nevralgico della questione: i rapporti tra i conviventi omosessuali possono e devono trovare la propria regolazione nell’ambito delle possibilità concesse dal diritto privato. I giuristi sanno bene, peraltro, che praticamente tutti quei diritti generalmente invocati dai partner di una unione di fatto possono essere attivati tramite il diritto volontario e senza alcuna necessità di introdurre per via legislativa nuovi istituti.
E’ un falso problema, ad esempio, la questione successoria, in quanto attraverso il testamento è possibile trasmettere il proprio patrimonio a chi non avendo vincoli legali e/o familiari col testatore sarebbe escluso dalla successione legittima. Oggi nulla vieta, peraltro, al convivente omosessuale di ricorrere agli strumenti del diritto volontario stipulando una polizza assicurativa o una pensione integrativa a beneficio del partner, o stipulando un contratto di comodato d’uso vita natural durante, ovvero costituendo un usufrutto d’immobile.
E’ un falso problema il subentro nel contratto di locazione della casa di comune residenza, in quanto tale contratto può ben essere stipulato congiuntamente dai due partner, e in ogni caso già la giurisprudenza costituzionale è intervenuta riconoscendo il diritto di successione nel contratto di locazione a seguito della morte del titolare a favore del convivente (Corte Costituzionale sent. n. 404/1988). Così come è un falso problema la possibilità di visita in carcere del partner, oggi concessa anche ai conviventi grazie ad espresse disposizioni dell’ordinamento penitenziario (art. 18 della legge 26 luglio 1975, n.354, e art. 37 del regolamento di esecuzione D.P.R 30 giugno 2000, n. 230). Per quanto riguarda le visite in ospedale oggi già quasi tutti i regolamenti interni dei nosocomi contemplano la possibilità di accesso ai conviventi. E’ un falso problema, inoltre, la risarcibilità del convivente omosessuale per fatto illecito del terzo (ad esempio in un incidente stradale), poiché la giurisprudenza ha ormai pacificamente riconosciuto tale diritto (Tribunale di Milano 12 settembre 2011, n. 9965), secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte di Cassazione (Cass., sez. unite Civ., sentenza 26972/08, Cass. III sez. pen. n. 23725/08).
Numerose sono, del resto, le disposizioni normative che attribuiscono diritti specifici alle «persone stabilmente conviventi».
Basti citare, ad esempio, la possibilità di richiedere la nomina di un amministratore di sostegno (art. 408 e 417 c.c.), la facoltà di astensione dalla testimonianza in sede penale (art. 199, terzo comma, c.p.p.), la possibilità di proporre domanda di grazia (art. 680 c.p.), e così proseguendo.
La giurisprudenza riconosce, infine, la possibilità a conviventi omosessuali di stipulare, nell’ambito dell’autonomia negoziale disponibile, accordi o contratti di convivenza, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322 del Codice civile) e non contrastino con norme pubbliche, l’ordine pubblico o con il buon costume. Si tratta in genere di accordi di natura patrimoniale che rientrano nella disponibilità delle parti (ad esempio la scelta e le spese per l'abitazione comune; la disciplina dei doni e delle altre liberalità; l’inventario, il godimento, la disponibilità e l'amministrazione dei beni comuni; i diritti acquistati in regime di convivenza, ecc.).
A nulla vale, del resto, l’obiezione secondo cui limitare l’ambito di regolazione dei rapporti giuridici al solo diritto privato implicherebbe un onere di attivazione da parte dei conviventi omosessuali, che verrebbero così discriminati rispetto alle persone unite in matrimonio. A prescindere da quanto già evidenziato sul riconoscimento pubblico delle unioni omosessuali, ciò che fa specie è constatare come proprio i cultori dell’autodeterminazione e dell’autonomia della persona – fondamento del pensiero cosiddetto “laico” – siano i più accaniti sostenitori di tale obiezione. Per questo appare davvero paradossale che i propugnatori di una visione liberal del comportamento umano arrivino a chiedere insistentemente l’intervento dello Stato nella gestione dei rapporti privati, anziché invocare tutti quegli strumenti che consentono l’espressione della piena autonomia e della responsabilità dei singoli.
Mons. Mogavero, se non crede a noi, potrebbe leggere un interessante saggio sul tema pubblicato lo scorso marzo dalla Casa Editrice Nuovi Equilibri e intitolato Certi diritti che le coppie conviventi non sanno di avere. Gli autori (insospettabili) sono Bruno de Filippis (giurista ed esperto di diritto di famiglia), Gian Mario Felicetti (autore di La famiglia fantasma, e membro del Direttivo dell’Associazione radicale “Certi Diritti”), Gabriella Friso (responsabile dell’Ufficio Diritti dell’associazione “Les Cultures” di Lecco, membro del gruppo IO Immigrazione e Omosessualità di Milano e del Direttivo dell’Associazione radicale “Certi Diritti”), e Filomena Gallo (avvocato e segretaria dell’associazione radicale “Luca Coscioni” per la libertà di ricerca scientifica). Pur essendo tutti sostenitori del riconoscimento pubblico e normativo dei diritti delle coppie omosessuali, hanno scritto il citato saggio concependolo come «un manuale di sopravvivenza», attraverso il quale indicare ai conviventi «il modo di tutelarsi per restare insieme nel caso la vita conduca uno dei due in ospedale o in carcere, per conservare la casa, ottenere risarcimenti o congedi, stipulare convenzioni e assicurazioni, garantire che i figli non subiscano danni e discriminazioni». Indicazioni davvero utili per l’esercizio di diritti già esistenti.
E’ quindi del tutto improprio sostenere che «per la legge il convivente sia un signor Nessuno».
L’infelice uscita di mons. Mogavero colpisce proprio perché siamo certi che lo stesso Vescovo abbia non solo conosciuto ma anche pienamente condiviso la precisazione dottrinale della Congregazione allora diretta dal Cardinal Joseph Ratzinger. Come siamo certi che lo stesso Vescovo di Mazara del Vallo abbia conosciuto, apprezzato e stimato la lucidità teologica e la fede adamantina dello stesso cardinal Ratizinger. A proposito, è stato anche Romano Pontefice con il nome di Benedetto XVI. Fino allo scorso febbraio.

Letta chi?

L’illusione d’un patto di governo e i destini paralleli di Letta e Alfano
7 gennaio 2014

Enrico Letta, anche per gli obblighi di rappresentanza legati al suo incarico, parla molto, con mestiere e affabilità, ma non dice quasi nulla. Quando si avventura in qualche osservazione, come l’attribuzione al suo esecutivo del merito della discesa dello spread, si sente rispondere in modo piccato da Mario Monti, che gli ricorda che i quattro quinti di quella discesa si sono realizzati durante il suo governo, e poi viene gelato dal parere del segretario del suo partito, Matteo Renzi, che il merito lo attribuisce invece a Mario Draghi. Che queste docce gelate inducano il premier alla prudenza è comprensibile, ma andando avanti così rischia di cadere nell’irrilevanza. Il suo ottimistico preannuncio di intese di maggioranza su tutti i temi, per quanto controversi e ardui, si scontra con l’esperienza quotidiana di un governo che, dopo una mezza dozzina di provvedimenti annunciati, ritirati, approvati e poi emendati, non ha ancora fatto capire ai contribuenti qual è l’imposizione che grava sulla casa. Probabilmente ormai anche Letta si rende conto che la funzione del suo governo è quella di lasciare alle forze politiche il (poco) tempo necessario per trovare un accordo sulla legge elettorale, da sperimentare prima possibile.

La pretesa di Angelino Alfano, sostenuto dallo stesso Letta, che questa riforma rientri negli accordi di maggioranza per poi essere proposta alle opposizioni è stata ignorata da Renzi che punta addirittura a trovare un’intesa con Silvio Berlusconi prima che cominci il rito degli incontri per stendere quello che viene un po’ enfaticamente definito “patto di governo”. In realtà trovare un accordo sarà arduo anche tra i settori ministeriali, visto che oramai il clima è quello di una campagna elettorale in cui Letta e Alfano si troveranno a competere da sponde opposte e, per giunta, debbono trovare uno spazio non scontato negli schieramenti, si tratti di coalizioni o di liste di partito che si vanno determinando. Anche in una situazione così evidentemente crepuscolare, Letta potrebbe dare un senso alla sua attività se si occupasse di concludere qualcuna delle operazioni politiche che ha avviato, da quelle sul mercato del lavoro a quella sull’affollamento delle carceri. Ponendosi obiettivi raggiungibili apparirebbe un leader pragmatico, mentre continuando a vaneggiare di patti di legislatura si fa solo la fama di velleitario irrealista.

“I Giusti di Budapest”: quando il Vaticano salvò molti ebrei dal nazismo

“I Giusti di Budapest”: è il titolo del libro, edito da San Paolo, che racconta dell’impegno di due diplomatici vaticani per la salvezza di numerosi ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Si tratta del nunzio a Budapest, l’arcivescovo Angelo Rotta, e il suo uditore di nunziatura, mons. Gennaro Verolino. Fausta Speranza ha intervistato l’autore, lo storico Matteo Luigi Napolitano, docente all’Università G. Marconi:

R. – Un libro nato da un’esperienza straordinaria, di due straordinari diplomatici della Santa Sede: il nunzio a Budapest, Angelo Rotta, e il suo uditore di nunziatura, mons. Gennaro Verolino. Una storia di coraggio, una storia di giustizia anche. Non a caso il libro si intitola “I Giusti di Budapest”. Infatti, questi due diplomatici riuscirono a salvare molti ebrei che erano a rischio di deportazione durante i tragici anni della guerra, ricorrendo a espedienti, anche falsificando documenti, preparando documenti in bianco, quindi dei visti in bianco, oppure affittando immobili nella capitale ungherese ed estendendo a esssi l’immunità diplomatica. Oppure, semplicemente – anzi, in maniera drammatica e anche decisiva, quindi niente affatto semplice – fermando le marce tragiche verso il confine austriaco degli ebrei che venivano deportati. I convogli venivano fermati, con coraggio – perché quelli ebrei erano naturalmente guidati dalle guardie filonaziste che portavano questa popolazione inerme a morire – dicendo: attenzione, abbiamo dei lasciapassare, dei visti che consentono ad alcuni di questi ebrei di salvarsi…

D. – Una storia di intervento umanitario, per così dire, che passa attraverso la diplomazia: due piani che di solito vediamo distanti…

R. – Nella storia diplomatica della Santa Sede non è, in verità, qualcosa di nuovo. C’era una qualità dell’informazione, inviata dai diplomatici, veramente molto molto alta. Per me, in particolare, sono state decisive le carte della famiglia Verolino, messemi a disposizione dalla nipote di mons. Verolino. Ma non è l’unico caso. Questo ci porta a un interrogativo: questa questione dei Giusti, dei cattolici che salvarono ebrei, è una questione episodica oppure è una questione storiografica? Si tratta di piccoli casi isolati o si tratta, in verità, di una rete di assistenza molto più organizzata? La mia conclusione, che può essere anche naturalmente esposta a un esame critico, è che ci sia stata in verità una rete organizzata di salvezza e quindi che questi Giusti – in particolare, diplomatici vaticani – agissero anche e soprattutto dietro il coordinamento della Segreteria di Stato della Santa Sede e del Papa.

D. – Dunque, è un pezzetto di storia rispetto a tutto il "puzzle" della storia della Seconda Guerra mondiale, ma estremamente significativo. Torniamo su questo titolo: “I Giusti di Budapest”?

R. – I Giusti di Budapest sono, in particolare, mons. Angelo Rotta e mons. Gennaro Verolino: entrambi sono stati nominati Giusti tra le Nazioni dallo Yad Vashem. Ma è anche la storia di altri diplomatici: penso a Raoul Wallenberg, per esempio, o a Per Johan Valentin Anger. E non se ne parla in questo libro, ma naturalmente è nota la storia anche di Perlasca, che operò a Budapest e salvò moltissimi ebrei. Il termine “Giusti” ci richiama anche a una storia umana, una storia che racconta del dramma ed entra in particolare nel dramma di queste persone che erano veramente a rischio di vita. Ci sono anche descrizioni terribili della situazione umana e igienica di questi ebrei, di quello che i soldati delle “croci frecciate” del regime filonazista ungherese dell’epoca, facevano a questi ebrei, di come li trattavano.

FRANCESCO, OMOSESSUALI E MASSMEDIA


FRANCESCO, OMOSESSUALI E MASSMEDIA – di GIUSEPPE RUSCONI

Il 3 gennaio è uscita ‘La Civiltà Cattolica’ con il resoconto del lungo colloquio che papa Francesco ha avuto con 120 superiori generali di istituti religiosi il 29 novembre in Vaticano. L’interesse massmediatico è stato suscitato soprattutto da un passo in cui inizialmente il Papa ricorda il disagio di una bambina per il comportamento della così definita ‘fidanzata’ di sua madre. Ma i giornali titolano di ‘apertura alle coppie gay’. Nel momento in cui Renzi ha presentato la propria proposta in tal senso.



Scorrendo ieri pomeriggio le prime pagine internet dei giornali e stamattina sfogliando le edizioni cartacee, si ritrovano titoli come questo: L’apertura a sorpresa di papa Francesco: “Le coppie gay, una sfida per chi educa: non allontaniamo i loro figli dalla fede” (laRepubblica, che nelle due pagine dedicate all’argomento riepiloga anche “Trent’anni di proposte finite nel cassetto: dai Pacs ai Dico, le leggi diventate tabù”, e pubblica tra l’altro un grafico da cui si evince che nella Bari di Vendola sono state 729 le adesioni al registro delle ‘unioni civili’, nella Milano di Pisapia 650, nella Firenze di Renzi 97, mentre a Napoli sono 20 e a Bologna 4). Da notare la pagina intera del Messaggero, dal titolo “Il Papa: coppie gay, nuove sfide educative” (nel sottotitolo, anche: “Gli omosessuali: fatto storico”), in cui appare la solita cartina europea in cui l’Italia figura – insieme a pochi altri soprattutto del mondo slavo e balcanico – come la ‘retrograda’ di turno.

Titoli e commenti fanno riferimento a un passo del resoconto dell’incontro ( durato tre ore) del 29 novembre nell’Aula nuova del Sinodo tra papa Francesco e 120 superiori generali di istituti religiosi. Tale resoconto è stato pubblicato su La Civiltà Cattolicauscita il 3 gennaio ed è stato redatto da padre Antonio Spadaro, direttore del quindicinale gesuitico e già autore della lunghissima intervista al Papa (controversa per diversi contenuti) apparsa a settembre.

Che cosa ha detto esattamente il Papa nell’occasione? Rispondendo a domande sul “compito educativo”, che ha definito “una missione chiave, chiave, chiave!”, Francesco – riferisce padre Spadaro – “ha citato alcune sue esperienze a Buenos Aires sulla preparazione che si richiede per accogliere in contesti educativi bambini, ragazzi e giovani che vivono situazioni complesse, specialmente in famiglia: Ricordo (NdR: il passo che segue è citato come uscito direttamente dalla bocca del Papa) il caso di una bambina molto triste che alla fine confidò alla maestra il motivo del suo stato d’animo: ‘La fidanzata di mia madre non mi vuol bene’. La percentuale di ragazzi che studiano nelle scuole e che hanno i genitori separati è elevatissima. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Come annunciare Cristo a questi ragazzi e ragazze? Come annunciare Cristo a una generazione che cambia? Bisogna stare attenti a non somministrare ad essi un vaccino contro la fede”.

In sintesi. Primo: Francesco ha citato il caso (che gli era stato riferito da una maestra) di una bambina molto triste perché la ‘fidanzata’ della madre non le voleva bene. E’ un caso espressione di un disagio infantile derivato dal vivere in casa con due donne che si amano. Tutt’altro che un segno positivo, come osserva anche Paola Binetti dalle colonne del Messaggero: (il disagio) “è ancora oggi la barriera più forte all’adozione o presenza di figli all’interno di una coppia gay”. Qui c’è poi da osservare che il termine ‘fidanzata’ significa in italiano ‘promessa sposa’(etimologicamente deriva dal latino foedus, patto): e forse il termine utilizzato nel contesto non appare il più felice sulla bocca di un Papa.

Secondo. Francesco si è riferito successivamente ai tanti figli di coppie separate e si è posto la domanda: Come annunciare loro la Buona Novella? E’ una domanda seria che esige una risposta ponderata, vera, incisiva: non possiamo certo incolpare i figli per certe situazioni derivate dalla rottura dell’unità familiare, non possiamo “somministrare ad essi un vaccino contro la fede”, ma dobbiamo mostrare loro la bellezza dell’Annuncio (in cui è inserita la bellezza della famiglia fondata sull’unione tra uomo e donna).

Che hanno fatto molti media? Hanno unito (perdipiù storpiandone il senso) la citazione argentina con il seguito riguardante i figli di genitori separati e ne hanno tratto – con pressapochismo e/o malafede - le frasi sull’ “apertura” papale alle unioni tra omosessuali. Il tutto proprio mentre il maggior rappresentante della ‘società liquida’ in Italia, il sindaco di Firenze Matteo Renzi (che si dice cattolico) ha lanciato la sua proposta “irrinunciabile” sul riconoscimento delle unioni omosessuali. Il gioco della nota lobby (i cui esponenti già si sono felicitati strumentalmente con papa Bergoglio) è evidente: premere con forza sul governo Letta perché l’obiettivo antropologico-economico sia raggiunto. E per farlo non badano a mezzi, arruolando anche il Successore di Pietro.

E’ anche evidente che, da telespettatore, ascoltatore o lettore, il povero cittadino italiano viene ormai incessantemente bombardato da messaggi cari alla nota lobby; tanti perdipiù si fermano ai titoli fuorvianti, tanti altri tendono alla rassegnazione. E i cattolici che invece vogliono testimoniare pubblicamente i valori della Dottrina sociale della Chiesa si ritrovano (almeno apparentemente) sempre più emarginati (senza nessun incoraggiamento o anche rimbrottati dall’alto). Correndo – ed è cosa che fa rabbrividire - il rischio di essere additati come nemici del Papa e della Chiesa dalla nota lobby e dai suoi fiancheggiatori volontari o involontari (tra cui non pochi opportunisti, cattolici da ‘società liquida’). Così va il mondo. Ma già altre volte gaie macchina da guerra si sono sorprendentemente inceppate.

Gli anni spezzati. Il Commissario Calabresi

Da Lorenzo Bertocchi


Nelle serate del 7/8 gennaio va in onda una fiction Rai sulla figura del Commissario Calabresi che, per chi lo avesse dimenticato o non lo sapesse, è stato un “servitore dello Stato” assassinato il 17 maggio 1972 da Ovidio Bompressi, con la complicità di Leonardo Marino, su mandato di Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Tutti membri di Lotta Continua, gruppo comunista-rivoluzionario che ha contribuito molto a scrivere la storia dei nostri “anni di piombo”.

Il giorno dopo l’assassinio del Commissario, proprio sull’organo di stampa di “Lotta Continua”, c’è tutto l’assurdo che caratterizzò quegli anni: “L’uccisione di Calabresi è un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia”. Questi personaggi, fin troppo esaltati anche ai giorni nostri, si ritenevano consacrati ad una vera e propria missione di carattere pseudo-religioso e per questo disposti a tutto. Ennesima testimonianza di come l’ideologia, di qualsiasi stampo, travolge ogni cosa: la realtà se non è come si vuole, si deve trasformare con qualsiasi mezzo. In quel caso fu l’uccisione di un Commissario di P.S.

La vicenda Calabresi, così come è conosciuta dal grande pubblico, origina dalla tragica strage di Piazza Fontana – 12 dicembre 1969 – dove morirono 17 persone e altre 90 rimasero ferite. Nato a Roma nel 1937, Calabresi giunse a Milano dopo la laurea conseguita nel 1965 e dopo aver vinto il concorso in polizia. Ben presto fu trasferito all’ufficio politico e qui si trovò a confrontarsi con i terribili fatti che stavano infiammando le piazze.

Dopo la strage a Piazza Fontana la questura di Milano, già da tempo impegnata contro l’eversione di sinistra e di destra, controllò l’alibi di circa 140 persone sospette, tra cui l’anarchico Pino Pinelli. La notte del 15 dicembre 1969 si consumò la tragedia: durante l’interrogatorio condotto nell’ufficio di Calabresi Pinelli precipitò dalla finestra e morì. “Pinelli si è suicidato”, disse Calabresi alla moglie appena gli fu possibile rincasare, ma tutta la stampa e l’intellighenzia in voga la pensava (o voleva pensare) molto diversamente. “Comunque sia morto, Pinelli è stato ucciso” sentenziarono da subito gli anarchici milanesi, ma ben presto si arrivò ad accusare Calabresi di omicidio. Cominciò il quotidiano “l’Avanti”, poi “l’Unità”, e Lotta Continua in fondo non fece che riprendere e “gonfiare” le tesi fornite dalla stessa stampa “ufficiale”. “Questo marine dalla finestra facile – scrivevano quelli di Lotta Continua – dovrò rispondere di tutto. Gli siamo alle costole ormai…”

Quando il 4 luglio 1970 Calabresi venne prosciolto dalle accuse di omicidio si scatenò il finimondo. Circa 800 intellettuali (c’erano davvero tutti i bei nomi di allora e anche di oggi) pubblicarono sull’Espresso un messaggio di protesta in cui si ribadiva che “Calabresi porta la responsabilità della fine di Pinelli”. Poi, dopo un linciaggio mediatico durato quasi due anni, si arrivò all’assassinio in quella mattina del maggio del 1972.

Ma chi era Luigi Calabresi? Con le parole scritte nel 1992 da Leonardo Marino, autista del commando che lo freddò, “Calabresi era solo un poliziotto che faceva il suo mestiere. Ma allora, per noi, il poliziotto “buono” non esisteva”. Certamente Calabresi era un uomo capace di “elette virtù civiche ed alto senso del dovere”, come recita la motivazione del conferimento di medaglia d’oro assegnata nel 2004, ma per comprenderlo fino in fondo bisogna andare oltre. Nella foto ricordo dell’ultimo anno di liceo, era il 1957/58, Calabresi scrisse questo verso di Trilussa: “Sarà, ma trovo strano / che me possa guidà chi nun ce vede. / La cieca, allora, me pijò la mano / e sussurrò: “Cammina!”. Era la Fede.”

Lugi Calabresi era un cattolico osservante, un uomo che provava ad impastare la sua vita quotidiana con il Vangelo. Su di lui è aperta anche una causa di beatificazione. In uno scritto pubblicato dal settimanale “Epoca” che risale al periodo precedente il suo ingresso in polizia egli diceva: “Sono affascinato dall’esperienza che può fare in polizia uno come me, che vuol vivere una vita profondamente, integralmente cristiana. (…) Oggi quello che conta è il successo, questa medaglia di basso conio che su di una faccia porta stampato il denaro e dall’altra il sesso. Se volessi intascare e magari spendere medaglie come questa non andrei in polizia (…) Purtroppo sono fatto in un certo modo, appartengo a un gruppo di giovani che vuole andare controcorrente”.

Calabresi si formò nel movimento Oasi del gesuita romano Virginio Rotondi, il quale all’indomani della morte del Commissario, a chi voleva conoscere chi fosse realmente quest’uomo scriveva: “Cerchino e troveranno come eri consegnato a Cristo: totalmente.”

Per capire meglio queste parole è da leggere il libro che ha fatto da base alla fiction Rai, “Gli anni spezzati. Il Commissario” di Luciano Garibaldi, e anche “Luigi Calabresi. Un profilo per la storia” di Giordano Brunettin. Infatti, nelle pieghe della vita di Luigi Calabresi si trova tutto il senso di questa “consegna a Cristo”. E c’è molto da imparare. Per tutti. (La Voce di Romagna, 5/1/2014)


Intervista a sr M.G. Riva: “Svegliate il mondo”

lunedì 6 gennaio 2014

Ogni volta che questo Papa parla, ci troviamo di fronte a questa strana situazione: da un lato la commozione e l’entusiasmo per la freschezza e la limpidità, senza schemi, con cui egli ci richiama a ciò che è essenziale nella vita cristiana (quello che Solov’ëv chiamerebbe “Gesù Cristo e tutto quello che deriva da lui”), mentre dall’altro la ridda delle interpretazioni monotematiche e ripetitive che non sanno dare ragione di quanto il Papa dice, soprattutto guardando ai problemi che pone come se fossero già una risposta da ripetere. L’ultimo articolo di Civiltà Cattolica “Svegliate il mondo” non si sottrae purtroppo a questo destino.
Lasciamo pure da parte quelle interpretazioni che impediscono di leggere in profondità il messaggio pontificio; raccogliamo tutti quegli spunti che ci consentono di imparare con semplicità e gioia quanto lo Spirito ci sta comunicando attraverso papa Francesco.
Per questo ho chiesto a suor Maria Gloria Riva, monaca della Adorazione Eucaristica, di misurarsi con queste parole del Papa.
Partiamo da questa osservazione: “La vita religiosa deve permettere la crescita della Chiesa per la via della attrazione”. Da tempo hai iniziato il cammino di una nuova fondazione, e dopo poco tempo siete già in 10, di cui molte giovani. Che cos’è che può affascinare un uomo o una donna d’oggi rispetto alla vita religiosa? Puoi raccontarci qualche episodio significativo?
Se fossi Ildegarda di Bingen, di cui sto leggendo con molto frutto gli scritti e la vita, santa a cui la nostra comunità – come sai – molto si riferisce, risponderei che è necessaria ai religiosi la “viriditas”. Con questo termine Ildegarda intendeva quel rigoglio, quella fecondità gioiosa eppure consapevole del dolore che deve sopportare, quella verità solida, cui si è certi di potersi appoggiare, e che soltanto un vero amore per Cristo ti può dare.
Ho notato in tutte le ragazze che ora sono con me il fascino esercitato da una vita – non tanto priva di tentazioni, ostacoli, sofferenze e persino limiti umani, quanto – innamorata. Vivere da innamorati significa vivere nella consapevolezza che Cristo ci ha scelto per compiere quel disegno buono che ha sulla storia e decidersi di votarsi a questo.
Papa Francesco, nel modo che gli è proprio, più volte ha detto questo e lo ripete in quest’ultimo messaggio già col titolo: «Svegliate il mondo!», ma anche quando chiede di vivere con radicalità, di trovare un linguaggio nuovo, un nuovo modo di dire le cose e, aggiungerei io, un nuovo modo di guardare le cose.
“I religiosi seguono il Signore in maniera speciale, in modo profetico. Io mi attendo da voi questa testimonianza. I religiosi devono essere uomini e donne capaci di svegliare il mondo”: ti senti descritta da queste parole con cui il Papa descrive la vita religiosa? Certamente per svegliare bisogna essere svegli. In che modo la proposta che vivi ridesta ogni giorno questo spirito profetico di cui il mondo di oggi ha così tanto bisogno?
Il termine profetico può essere riletto mediante la lingua latina con l’espressione «pro fites», cioè la missione di indicare agli altri qualcosa già presente, già in atto ma che nessuno vede. Fu la missione del Battista. Troppo spesso l’aggettivo profetico viene annesso soltanto a ciò appartiene al futuro, mentre – benché la vita religiosa sia testimonianza dei beni futuri, si traduce nel tempo presente come possibilità di individuare già nel tempo presente quel bene futuro cui si aspira.
“Si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla periferia”: hai lasciato un centro importante come Monza per rinchiuderti - apparentemente - in un posto insignificante e piccolissimo. Vivi questa condizione come un limite, una inevitabile necessità o come una chance?
Oggi più che mai abbiamo bisogno di persone che si muovano alla ricerca del bene e del vero. Molto spesso verso le periferie, anche geografiche, si muovono le persone che cercano davvero qualcosa o, forse, Qualcuno. Le persone che incontriamo qui sono talora persone che non giungono fin qui per noi, ma ci trovano e, incontrandoci fanno la scoperta di una Chiesa diversa da quella a cui – forse – sono abituati a pensare. Io credo che il Papa desideri questo, che coloro che non credono o che sono sfiduciati per le difficoltà della vita, per le ricerche esistenziali, possano incontrare dei cristiani attraenti, degli amici autentici e discreti. È vero poi che passando da una città – a suo modo molto religiosa come Monza – ho conosciuto, proprio in questi paesini di periferia, una forma di anticlericalismo per me nuova. Una sfiducia totale nell’uomo di Chiesa. Ricordo che, venendo a conoscere la visibilità della mia persona, alcune buonissime signore (e anche alcuni uomini) mi dicevano : «No, lei così famosa, non starà qui! Questo è un posto dimenticato». Oggi sono fiera di abitare in un posto dimenticato perché – senza saperlo – ho obbedito al desiderio della Chiesa prima che questa lo formulasse nelle parole del Santo Padre. Ulteriore conferma che è sempre Dio che guida i nostri Pastori.
“C’è bisogno di un nuovo linguaggio, di un nuovo modo di dire le cose. Oggi Dio ci chiede questo: di uscire dal nido che ci contiene per essere inviati. Chi poi vive la sua consacrazione in clausura vive questa tensione interiore nella preghiera perché il Vangelo possa crescere…”: Clausura e missione, in che modo sono una esperienza compiuta? E il nuovo linguaggio, che per te e le tue sorelle investe principalmente il mondo della bellezza, in che modo aiuta gli uomini ad incontrare Gesù e la sua Chiesa?
Senza la clausura, il nostro tipo di missione sarebbe impossibile. In questi giorni sono stata molto colpita da un passo di san Basilio che la Liturgia delle Ore ci ha offerto. Benché lo abbia letto molte volte quel brano, soltanto ora quel passo ha assunto per me tutta la pregnanza di significato che contiene e che risponde alla tua domanda. Scrive san Basilio nel suo trattato Su lo Spirito Santo: «L’adorazione nello Spirito indica un’attività del nostro animo svolta in piena luce». Noi che siamo missionarie anzitutto nell’adorazione eucaristia e nella liturgia cantata e pregata se non esprimessimo in tutto questo un’attività dell’animo, saremmo cembali squillanti, come direbbe san Paolo.
Davvero c’è anzitutto la preghiera all’origine della missione. Le opere che la Chiesa ha da compiere sono solo le opere della fede. Solo queste opere, infatti, sono trasparenza di un’attività che ha la radice nell’animo, solo queste opere danno gloria a Dio e portano salvezza all’uomo, elevano creato e creatura. In questo senso si parla d’inculturazione di un carisma, di fare “ruido”, come dice il Papa: il fare rumore nasce non dallo strepito con cui si proclama il Vangelo ma dalla novità con cui lo si annuncia. Qui a ognuno il suo: cioè a ogni carisma il compito di lasciarsi illuminare dallo Spirito per trovare, appunto, nuove vie e nuove parole. Per noi la novità intravista nel carisma che Madre Maria Maddalena dell’Incarnazione ha consegnato alle sue figlie, le Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento, è stata proprio in una frase liturgica da lei fatta sua: dalla bellezza delle cose visibili si giunge alla bellezza dell’Invisibile. La beata Maria Maddalena parlava di quella realtà visibile che è il Santissimo Sacramento per la quale vediamo – qui in terra – la Presenza del Bellissimo, tuttavia oggi, in un mondo che non comprende più la preghiera di adorazione, abbiamo individuato – proprio a partire da quella frase – la grande opportunità missionaria che offre la via pulchritudinis. Dall’adorazione eucaristica noi siamo educate alla bellezza di uno sguardo diverso sulle cose, sulle realtà quotidiane, sulle bellezze visibili, come l’arte, la musica, la tradizione. Agli uomini lontani, a quelle periferie esistenziali di cui parla il Papa, possiamo giungere però attraverso il percorso inverso: educando a guardare in modo diverso all’arte, alla musica, alla tradizione li si accompagna gradatamente a scoprire qual è la sorgente del nostro sguardo: Gesù realmente presente nell’ostia che adoriamo quotidianamente.
Ecco questa è missione e inculturazione, partire da ciò che l’uomo della strada apprezza per colpirlo – come direbbe Chagall – nelle sue nostalgie e riconciliarlo col Mistero di Cristo.